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«La scuola impari a disegnare il futuro degli studenti»

L'intervento di Giovanni Biondi, presidente di Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa), sull'Alternanza scuola-lavoro sul numero di VITA in distribuzione. «Perché abbia successo occorre che al centro siano messi i ragazzi e non le esigenze della struttura o quelle degli insegnanti»

di Giovanni Biondi

La prima domanda che ci dobbiamo porre è: cos’è l’Alternanza scuola-lavoro? Qual è il valore educativo e perché l’Alternanza ha diritto di cittadinanza nei curricula scolastici?


Molte scuole fanno coincidere l’Alternanza con il lavoro. In altre parole progettano un’attività lavorativa di qualunque tipo. Ma il tema è lavorare, magari negli stessi edifici scolastici o in scuole vicine? Basta ad esempio curare gli spazi verdi della scuola e quindi fare un lavoro manuale per interpretare gli obiettivi dell’Alternanza? L’obbligo di 200 e 400 ore è stato introdotto solo per far “sporcare le mani” degli studenti? Per ingaggiarli in un lavoro “qualunque” o per farli partecipare ad una impresa virtuale? Ad una sorta di gioco al lavoro, facciamo finta di …?

Se il tema è trovare qualcosa da fare per gli studenti di un liceo allora anche affiancare un custode in un museo o passare una settimana a schedare, chiusi in un archivio o in una biblioteca, decine di libri e documenti va bene. Così come incartare panini o fare fotocopie, rispondere al telefono in un call center. Tutte attività legittime che magari abbiamo atto tutti per guadagnare qualche “euro” quando eravamo studenti. Non è quindi in discussione che comunque lavorare, impegnarsi in una attività serva a crescere ed a cercare una propria autonomia che comunque rappresenta anche una tappa fondamentale nell’adolescenza.

I temi però sono altri: l’Alternanza scuola-lavoro ipotizza un legame tra le due realtà; l’Alternanza si definisce come una attività formativa legata al raggiungimento di competenze che magari rimanendo nell’ambiente scolastico non si riesce a raggiungere. Si chiede alla scuola di programmare le attività e magari di collegare quello che fanno i ragazzi in Alternanza con tutte le materie anche quelle più “tradizionali” come l’italiano o la matematica. Fare in modo che l’apertura al mondo del lavoro rappresenti per la scuola un’esperienza di “descolarizzazione” del modello didattico dipende in modo determinante dal tipo di esperienza che si realizza.

Se la programmazione dell’Alternanza parte dalla definizione delle competenze che si intende raggiungere e dal raccordo tra le attività che svolgeranno i ragazzi fuori dalla scuola con quelle “curricolari” allora è difficile che si mandino i ragazzi ad incartare panini o a rispondere a telefono in un call center. Non basta svolgere un’attività lavorativa per sviluppare automaticamente delle non ben definite competenze negli studenti. Naturalmente l’Alternanza non può più essere, come è stato in passato prima della 107, un fatto episodico ma un metodo che deve introdurre un vero e proprio percorso integrato di studio e lavoro. Un sistema “duale” italiano che riscopra il valore formativo del lavoro e dell’apprendistato: le competenze professionali necessarie a svolgere queste attività non si imparano davanti ad una lavagna…

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