Formazione

La scuola del futuro, tra don Milani e il maestro Manzi

La miniserie “Non è mai troppo tardi” racconta la storia dell’insegnante che aiutò milioni di italiani a uscire dall’analfabetismo. Uomo controcorrente, libero pensatore, aveva in mente lo stesso progetto educativo di don Milani

di Francesco Mattana

Questa mattina è stata pubblicata su Repubblica una lettera di Massimo Manzi, figlio del “maestro d’Italia” Alberto. In maniera molto educata, la missiva lasciava intendere il problema di fondo che riguarda ogni miniserie di contenuto biografico: l’impossibilità di restituire fino in fondo l’uomo in carne e ossa a cui è dedicata. Naturale, poi, che se lo sceneggiato parla di un contemporaneo, il rischio di urtare qualche suscettibilità risulti ancora maggiore. Ad ogni modo, fermo restando l’incontestabile diritto di un suo familiare a esprimere pubblicamente la propria opinione, in queste circostanze è preferibile affidarsi a un parere neutro, proveniente da persone che –non avendo avuto alcun tipo di legame col conduttore di Non è mai troppo tardi– si limitano a giudicare la qualità della fiction.

Tutto sommato, dopo aver visto la prima puntata –andata in onda ieri sera su Raiuno- ci è parso un prodotto discreto, da cui si evince il carattere controcorrente dell’uomo; la sua etica ferrea, che lo spingeva a venire in rotta di collisione coi dirigenti scolastici e televisivi. Sono aspetti, peraltro, che non erano molto noti fino a molti anni fa. Sicuramente non erano noti al pubblico –enorme, smisurato- che seguiva i suoi “corsi serali” nella tv di Stato, dal 1960 al 1968. L’immagine di lui che veniva fuori dai teleschermi in bianco e nero era molto diversa: sembrava la rappresentazione vivente della pacatezza, della prudenza, della ponderatezza. Non emergeva, insomma, la fermezza dei suoi propositi, l’irrequietezza, il rigetto di qualunque soluzione compromissoria contraria ai suoi principi. Verrebbe da definirlo un ribelle, ma questo appellativo semplificatorio lo avrebbe fatto arrabbiare molto. Era un uomo contro, questo è sicuro; un carattere sensibile che già da ragazzo provava una rabbia enorme di fronte alle ingiustizie della società.

Su un punto in particolare non era disposto a transigere: bisognava dare a tutti gli studenti l’opportunità di costruirsi come uomini pensanti e non solo come bravi allievi; detestava la supponenza del sistema scolastico che si proponeva solo di indottrinare i discenti, non permettendo loro di sviluppare un pensiero autonomo e critico. Questa battaglia di civiltà lo portò a intraprendere anche azioni creative, che a suo tempo fecero molto rumore -ad esempio, quando ribellandosi all’introduzione della “scheda di valutazione” al posto della pagella, scrisse un giudizio unico per tutti i suoi scolari: “Fa quel che può, quel che non può non fa”.

Abbiamo un numero sufficiente di elementi per azzardare un parallelo con una figura molto importante, che ha segnato uno spartiacque profondo nella storia della pedagogia: don Lorenzo Milani. Qualche purista potrebbe a ragione risentirsi per questo paragone quindi va precisato, a scanso di equivoci: l’esperienza della scuola di Barbiana è stata unica, conserva ancora oggi tutta la sua attualità e anzi -proprio perché le riflessioni contenute in Lettera a una professoressa sono di una modernità assoluta- più passano gli anni e più diventa urgente mettere in pratica quegli insegnamenti. Detto ciò, non è affatto campato per aria suggerire degli accostamenti tra il maestro romano e il sacerdote fiorentino. A cominciare dall’anagrafe: entrambi avevano vent’anni durante la guerra, entrambi di fronte allo spettacolo di morte e distruzione sentirono dentro di sé la voglia di rimboccarsi le maniche, per costruire un futuro più decente. Don Lorenzo, a un certo momento della sua vita decise di indossare il talare, avendo ben presente –più di chiunque altro- che non è l’abito a fare il monaco, bensì il buon esempio; Alberto Manzi, già a partire dall’esperienza come insegnante nel carcere minorile di San Michele, aveva intuito che creare un’empatia vera con gli alunni sarebbe stata la vera rivoluzione copernicana: quella rivoluzione andava attuata il più presto possibile, perché non si poteva continuare a giocare sulla pelle dei più giovani.

Ventenni durante il conflitto mondiale, quarantenni negli anni Sessanta: l’aria di cambiamento in quel periodo la sentivano solo quelli come loro due, con le orecchie ben puntate verso il futuro. Ma non si limitavano a prenderne atto passivamente: tutte e due dotati di un temperamento tale per cui, senza esitazione alcuna, avevano compreso che bisognava muoversi in maniera pratica per migliorare lo stato delle cose. C’è un altro aspetto, poi, che li accomuna: agivano solo per senso del dovere, non avevano previsto che la loro azione nei decenni avrebbe assunto un valore emblematico. Invece, è andata proprio come non potevano aspettarsi: i ragazzi di un piccolo centro della diocesi di Firenze hanno fatto la storia, così come le lezioni televisive del telegenico Manzi; Lettera a una professoressa è stato letto –e condiviso- da milioni di persone, mentre Non è mai troppo tardi ha prodotto come effetto il conseguimento della licenza elementare per un milione e mezzo di italiani.

Ha ragione il professor Giorgio Simonelli: nella tv di oggi c’è molto educational, ma manca un progetto educativo organico come quello messo in piedi dalla Rai del monopolio. Naturalmente i dirigenti pure allora erano tutt’altro che dei santarellini. Però, a differenza di oggi, davano ospitalità a un insegnante controcorrente che dentro il suo cuore, nell’intimo della coscienza, aveva stampato il motto I care. Come i giovani della comunità di Barbiana.

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