Economia

La scommessa della deglobalizzazione

Secondo l'Economist il rimpatrio delle multinazionali è iniziato prima della rivolta populista del 2016. La loro redditività finanziaria è diminuita a vantaggio delle imprese locali, la loro abilità di arbitraggio fiscale sembra essersi esaurita e la riduzione dei costi del lavoro all'estero sembra anch'essa diminuita. Sta di fatto che negli ultimi cinque anni i profitti delle multinazionali sono calati del 25%

di Christian Marazzi

Non è indifferente, per un paese come la Svizzera, capire come si comporteranno le imprese multinazionali nell'era Trump. La Svizzera detiene, per abitante, il record mondiale in materia di concentrazione delle multinazionali ed è il numero due in investimenti diretti all'estero. Negli ultimi anni, molte imprese multinazionali o globali hanno spostato la loro sede regionale o centrale verso la Svizzera, e tra queste “società immigranti”, ad esempio nel settore petrolifero o delle materie prime, non poche sono angloamericane.

Per Donald Trump queste imprese “senza volto e senza radici” sono responsabili del carnaio inflitto alla classe media e alla working class americana perché hanno dirottato all'estero imprese e milioni di posti di lavoro. Le vuole quindi riportare a casa, abbassando le tasse per rimpatriare i profitti realizzati all'estero e erigendo barriere tariffarie per costringerle ad investire in patria.

La domanda che in molti si pongono è se la deglobalizzazione voluta da Trump e dai suoi amici europei sia in grado di rilanciare l'occupazione su scala nazionale, aumentare i redditi della classe media e ridurre le disuguaglianze che nei trent'anni di globalizzazione e liberalizzazione dei mercati è aumentata a dismisura all'interno dei paesi ricchi.

Secondo l'Economist (“In retreat”, 28 gennaio 2017), il rimpatrio delle multinazionali è però iniziato un bel po' prima della rivolta populista del 2016. La loro redditività finanziaria è diminuita a vantaggio delle imprese locali, la loro abilità di arbitraggio fiscale sembra essersi esaurita e la riduzione dei costi del lavoro all'estero sembra anch'essa diminuita. Sta di fatto che negli ultimi cinque anni i profitti delle multinazionali sono calati del 25%, la qual cosa le porterà a ridimensionarsi a tutto vantaggio delle imprese locali (ad esempio cinesi) che in questi anni hanno imparato a crescere e a innovarsi molto più dei giganti globali.

Comunque sia, questo rimpatrio delle multinazionali, sempre che la tendenza sia duratura, permetterà a Trump di mantenere le sue promesse di rilancio dell'occupazione? C'è un precedente che può aiutarci a capire meglio. Già nel 2004, negli Stati Uniti, la Legge sugli investimenti domestici (Homeland Investment Act) assicurò una riduzione fiscale alle imprese che rimpatriano i redditi realizzati all'estero. La condizione era che, per ottenere lo sgravio, i profitti rimpatriati fossero investiti in Ricerca&Sviluppo e in formazione degli operai americani. E come sono andate le cose? Beh, tra il 62 e il 90% di questi soldi rimpatriati sono andati a finire nelle tasche degli azionisti sottoforma di dividendi e interessi. Non proprio un successo sotto il profilo del rilancio dell'occupazione. E se anche fossero investiti in patria, non è affatto detto che lo siano in manodopera, se solo si pensa all'enorme potenziale raggiunto dalla robotizzazione.

Il patriottismo e la deglobalizzazione, sicuramente, avranno effetti pesanti sul commercio mondiale, e la Svizzera non ne sarà immune. Ma sui suoi effetti benefici è lecito avere più di un dubbio, e non pochi timori.

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