Economia
La scientificità dell’impatto sociale che serve al Pnrr
Possiamo muovere innumerevoli critiche ai sistemi di valutazione degli operatori di mercato, ma non possiamo perdonare la falla alla voce S dell’impatto sociale oggetto di una proposta per la “social taxonomy” da poco pubblicata a cura della piattaforma europea per la finanza sostenibile: nel documento di lavoro si legge infatti che mentre i criteri ambientali sono scientificamente validati nel caso degli obiettivi sociali non si può contare su una medesima base scientifica. Un nodo da sciogliere anche per il nostro Governo
C’è un bug di sistema negli ESG? Cioè nei criteri di valutazione dell’impatto a livello ambientale, sociale e di governance dai quali dipende, o dovrebbe dipendere, un radicale riorientamento dell’industria finanziaria? Possiamo muovere innumerevoli critiche ai sistemi di valutazione degli operatori di mercato, ma non possiamo perdonare la falla alla voce S dell’impatto sociale oggetto di una proposta per la “social taxonomy” da poco pubblicata a cura della piattaforma per la finanza sostenibile. Un gruppo di esperti istituito della Commissione europea con il compito di informare il processo di policy making per una finanza più inclusiva e d’impatto. In che cosa consiste l’errore e perché è di sistema è presto detto: non riguarda infatti gli esiti della tassonomia, ma il modo in cui è stata costruita. Nel documento di lavoro si legge infatti che mentre i criteri ambientali sono scientificamente validati – ad esempio in termini di limitazioni alle emissioni nocive – nel caso degli obiettivi sociali non si può contare su una medesima base scientifica. Come conseguenza di questo limite l’impatto sociale diventerebbe soprattutto un “affare tra stakeholder” che attraverso il loro “dialogo sociale” definiscono norme e standard che alimentano i cardini della tassonomia. E’ chiaro quindi che al di là dell’esito, a contare sono le condizioni di processo e quindi è necessario chiedersi come si sia originata questa falla in termini di evidenze scientifiche e, una volta comprese le ragioni, se è possibile in qualche modo colmarla consentendo così un più efficace confronto tra i portatori di interesse, considerato il ruolo assai rilevante che potranno svolgere su questo fronte.
Rispetto ai limiti della produzione di evidenze in tema d’impatto sociale, il documento della piattaforma sulla finanza sostenibile non propone una interpretazione definitiva. Da una parte lascia intendere che a differenza di quanto avviene in campo ambientale “la scienza non è sistematicamente in grado di svolgere un ruolo simile per i fattori sociali”. D’altro canto evidenzia che esiste “un'abbondante ricerca sui fenomeni sociali all'interno delle scienze sociali che influenzeranno lo sviluppo di una tassonomia sociale” ma che comunque “la scienza non svolgerà lo stesso ruolo che svolge nella tassonomia ambientale”. In sintesi sembra affermare che esistono elementi di complessità tali da non poter elaborare e condividere una conoscenza base, ma che d’altro canto c’è margine per migliorare.
Si tratta di un’indicazione di non poco conto che può essere letta attraverso la classica immagine del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Da una parte si potrebbe sostenere che in questi anni gli sforzi conoscitivi hanno elaborato database e framework interpretativi incentrati però su segmenti specifici del campo sociale impedendo o precludendo il loro “upgrade” in termini sistemici. Una conoscenza quindi utile a perimetrare ambiti relativamente ristretti di attività e di organizzazioni, ma non in grado di ambire a modificare (in meglio) il sistema. D’altro canto non si riconosce che la rivoluzione digitale ha innalzato l’asticella della conoscenza e dei dati in modo significativo anche in campo sociale: big data e intelligenza artificiale consentono infatti di “leggere”, anche in senso predittivo, i fenomeni sociali in modo più preciso e sistematico. Non solo i grandi operatori del digitale come Google, Amazon e Facebook hanno fatto di questi dati una business miliardario ma stanno emergendo ovunque social data driven business in tutti i settori: dall’uso dei dati per determinare la salute a quello dei consumi nella grande distribuzione. Non solo quindi sforzi, spesso compiuti a posteriori, di raccolta ed elaborazione di dati e indicatori, a volte anche con zone d’ombra dal punto di vista metodologico, ma informazioni elaborate “in tempo reale” rispetto alle quali si pone comunque, e forse anche con maggiore evidenza, il tema di elaborare e presidiare gli algoritmi di calcolo.
Se quindi si vuole che l’impatto sociale assuma maggiore consistenza e sia meno in balia dei “twist and turn” delle rappresentanze e delle lobby o che, all’opposto, venga monopolizzato dai sistemi conoscitivi delle grandi piattaforme, è necessario cambiare marcia. In altre parole, se i dati digitali sociali stanno rivluzionando il mercato perché mai i policy maker non dovrebbero trarne vantaggio per il miglioramento della società?
Tocca, in primo luogo, a una comunità scientifica della ricerca sociale oggi impegnata soprattutto a svolgere un ruolo di “guardiano del fuoco” rispetto all’integrità dell’impatto sociale e dei suoi attori rifiutando, a volte in modo aprioristico, il confronto con altri attori preferendo così rinchiudersi in una nicchia non in grado di sovvertire il paradigma. Tocca, in secondo luogo, a tutti coloro che intervengono nei processi di costruzione e implementazione delle politiche: regolatori pubblici, attivisti, operatori e imprenditori sociali, attori dell’ecosistema sociale e tecnologico imparare ad operare meglio come un’intelligenza collettiva capace di processare in chiave di politiche quella mole di dati che sistemi informatici sempre più (o anche meno) intelligenti sapranno sempre più spesso produrre ed elaborare anche in campo sociale.
Oltretutto abbiamo l’occasione di montare un laboratorio di sperimentazione per definire i criteri di valutazione insieme alle modalità di raccolta, immagazzinamento e monitoraggio dei dati necessari per la tassonomia sociale: Next Generation Europe e, nella sua declinazine nazionale, il PNRR. Come possiamo soltanto concepire il più grande piano di investimenti pubblici dopo il piano Marshall (più esattamente 7 volte quest’ultimo) senza la convinzione di poter definire un quadro di valutazione dell’impatto sociale che non sia semplicemente lasciato alle negoziazioni tra stakheholder? Ne va della legittimità di qualsiasi intervento pubblico nel futuro e dello stesso contratto sociale tra cittadini e istituzioni pubblche. A maggior ragione ci sentiamo di dover invitare il governo insieme alla Commissione Europea a includere nella missione della transizione digitale – la più importante dell’intero PNRR – un progetto per la creazione di un sistema di valutazione dell’impatto sociale che sia “data-driven and evidence-based” per offire una soluzione speculare e non meno forte di quella sulla sostenibilità ambientale. Gia’ Banca d’Italia e Consob si sono mosse in questa direzione e il presidente di Consob ha annunciato nel suo rapporto annuale uno studio sulla definizione degli ESG che di fatto dovrà analizzare l’applicazione della tassonomia europea. Quindi si tratta di mettersi subito all’opera e, eventualmente, proporre un’iniziativa italiana che faccia da apri pista per il lavoro dei regolatori europei e internazionali. L’italia avrebbe anche la presidenza del G20 quest’anno se avesse bisogno di una piattaforma internazionale per lanciare questa iniziativa, superando di slancio questa impostazione debole della tassonomia sociale.
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