Salute

La salvezza viene dal farmaco dimenticato

Mentre prosegue la somministrazione di nevirapina contro il contagio hiv da madre a figlio, scopriamo la storia di questa medicina in cui nessuno credeva

di Gabriella Meroni

Se un farmaco potesse esprimere dei sentimenti, sicuramente la nevirapina sbotterebbe in un bel «ve l’avevo detto io». Questa molecola – scientificamente un “inibitore specifico della trascrittasi inversa del virus hiv-1” – rappresenta oggi la speranza di vivere per migliaia di bambini dello Zimbabwe, dove il Cesvi sta realizzando un programma anti Aids per bloccare la trasmissione del virus dalla madre al neonato. Ma è solo da un paio d’anni che questo medicinale, che sembrava avere tutte le caratteristiche per vincere ogni diffidenza – è efficace, dà scarsi effetti collaterali, ha un basso rischio di sviluppare resistenza e, soprattutto, costa poco – è stato riconosciuto come strada maestra per combattere l’hiv nei Paesi poveri. Prima del 1996, infatti, era considerato deboluccio, di modesta efficacia. Quasi inutile. E sì che la classe di medicinali cui appartiene, gli inibitori della trascrittasi inversa, è la più “antica” utilizzata contro l’Aids, avendo preceduto di anni i più famosi inibitori della proteasi (come l’Azt). Eppure, «la maggior parte dei ricercatori, dei medici e anche dei sieropositivi non erano interessati a questi medicinali», scrivono i giornali americani nel 1996, quando l’agenzia sui farmaci, la Food and Drug Admnistration, approva la nevirapina. Colpa dei primi studi, non del tutto confortanti: altre molecole sorelle della nevirapina erano infatti accusate di produrre ceppi di virus resistenti. Ma ulteriori ricerche avevano smentito questa eventualità, dimostrando che oltre il 70% dei sieropositivi trattati anche con nevirapina aveva visto diminuire la carica virale. Dal 1996 dunque si inizia a guardare a questo farmaco con favore, anche se non è ancora sorta l’alba della nevirapina, nel frattempo commercializzata dalla Boeringher-Ingelheim con il nome di Veramune. Per vedere l’alba ci si deve infatti spostare – e forse non è un caso – in Africa, il continente martoriato dall’Aids. Qui un gruppo di ricercatori dell’università di Kampala, in Uganda, nel 1999 sperimenta il farmaco su un gruppo di donne in gravidanza e accerta una diminuzione della trasmissione del virus al neonato vicina al 50 per cento. Un risultato sorprendente che in breve tempo fa il giro del mondo, ma viene consacrato l’anno dopo, in luglio, quando si apre la Conferenza internazionale di Durban sull’Aids in Sudafrica. Basta infatti che i risultati del trial ugandese vengano presentati al mondo, e che i Grandi della terra accorsi alla Conferenza indichino come prioritaria la lotta all’Aids nelle donne in attesa (come il direttore dell’Oms Gro Harlem Brundtland, che oltretutto fa alla nevirapina l’onore della menzione diretta), perché i riflettori si accendano sulla molecola prima trascurata, e perché la Boeringher si convinca a donare il preparato al Sudafrica fino al 2005. Il resto è storia recente: grazie alla donazione dell’azienda farmaceutica al governo di Johannesburg, il Cesvi riesce ad acquistare lì il medicinale a meno di 4000 lire a dose, contro le oltre 12 mila che avrebbe pagato in Europa. E in una sola settimana già 10 mamme dello Zimbabwe hanno salvato i propri figli da morte certa semplicemente inghiottendo una pastiglia. Se la nevirapina fosse una persona, dunque, dovremmo tutti chiederle scusa. E ringraziare chi, come le ong e i governi dei Paesi poveri, non si è stancato di credere in lei.


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