Politica

La rivolta non partì da Twitter

Il Guardian analizza i messaggi durante i disordini e scagiona il social network

di Antonio Sgobba

«Tutti coloro che hanno assistito a queste orribili azioni sono rimasti colpiti dal fatto che sono state organizzate attraverso i social network». Lo diceva David Cameron alla Camera dei Comuni lo scorso 10 agosto. Si sbagliava. Non era un fatto, almeno per quanto riguarda Twitter. Lo dimostra uno studio, elaborato ieri dal Guardian, che analizza i 2,5 milioni di tweet collegati ai giorni della rivolta. Un grafico mostra in maniera chiara che il grosso del traffico dei messaggi da 140 caratteri è sempre avvenuto dopo il verificarsi degli incidenti.

Ora questi dati dovranno essere considerati dal Governo, che negli ultimi giorni aveva annunciato misure restrittive nei confronti dei social network. «C’è un emergenza nazionale», si sono giustificati i membri del partito Conservatore. E la Polizia di Londra ha rivelato di aver preso in considerazione la possibilità di «spegnere» Facebook, Twitter e Blackberry durante i disordini – ha desistito solo su consiglio dei legali.

L’analisi dei trend dei messaggi confuta infatti la tesi per cui twitter avrebbe avuto un ruolo di diffusione dell’incitamento alla violenza. I tweet contenuti nel database partono dal primissimo giorno delle rivolte, il 6 agosto a Tottenham. I picchi nelle comunicazioni si registrano sempre in seguito alle devastazioni, non prima.

I social network non possono quindi essere considerati la causa dei «riots». Anzi. Si può osservare che una parte consistente del traffico – 206mila tweet, l’8% del totale – si è avuta per organizzare le operazioni di pulizia delle zone devastate e per coordinare i cittadini impegnati a riordinare la loro città dopo quattro giorni di saccheggi e incendi.

A breve il ministro degli interni Theresa May incontrerà i rappresentanti di Facebook, Twitter e Blackberry. Le compagnie sostengono che le misure restrittive costituiscono una forma di censura ondine. Probabilmente il Governo desisterà da provvedimenti duri nei loro confronti ma chiederà piuttosto di collaborare in caso di futuri disordini. Del resto, come scrive l’editorialista Dan Sabbagh: «Nessun politico si sognerebbe di chiudere le televisioni e di chiedere ai giornali di non uscire durante una rivolta».


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