Economia
La Riforma del Terzo settore? Una necessità
Che fine ha fatto la riforma del terzo settore? È importante che Governo e Parlamento procedano senza più perdite di tempo perché di un nuovo stimolo per un’economia che crei valore in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile abbiamo enorme bisogno
Che fine ha fatto la riforma del terzo settore ? L'editoriale di Leonardo Becchetti pubblicato sul numero di agosto del nostro magazine parte da questa domanda. La Riforma, è la risposta, è importante perché di un nuovo stimolo per un’economia che crei valore in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile abbiamo enorme bisogno. Per questo, conclude Becchetti, è importante che il Governo e Parlamento procedano senza perdite di tempo.
Che fine ha fatto la riforma del terzo settore? E’ importante che il governo proceda perché di un nuovo stimolo per un’economia che crei valore in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile abbiamo enorme bisogno.
L’uomo è tutt’altro che homo economicus (quello la cui felicità dipende dalla quantità di beni consumati e dal denaro accumulato che serve a comprare beni). E’ molto più un cercatore di senso e una persona, nesso di relazioni la cui felicità dipende dal rendere felici altri esseri umani, soprattutto i più bisognosi. Lo dicevano anche economisti famosi come John Stuart Mill nel famoso paradosso della felicità dove si afferma che non si trova la propria felicità cercandola di per sé. Piuttosto facendo qualcosa di utile per gli altri la si trova lungo la strada.
Per questo motivo le imprese sociali, di terzo settore, non massimizzatrici di profitto non sono un accidente della storia destinato a scomparire nel momento in cui mercati e istituzioni diventeranno perfette (cosa peraltro impossibile da realizzare). Esse sono comunque destinate a crescere perché rispondenti all’esigenza più profonda dell’animo umano. Basta vedere come il progresso tecnologico favorisca e stimoli sempre nuove forme di economia della condivisione e del dono un tempo inimmaginabili. Non è un caso che nell’ultima indagine mondiale Nielsen sul globally conscious consumer nel 2014 il 67% degli intervistati in più i 40 paesi del mondo dichiara che preferirebbe lavorare in un’impresa socialmente responsabile.
Di fronte a questo gigantesco fenomeno allo Stato non chiediamo di spendere tantissimi soldi ma solo di stimolare e di favorire queste immense energie dal basso della società civile, attivandole opportunamente e favorendo il loro incontro con la gigantesca mole di risorse finanziarie pazienti che gira nel pianeta.
Per tutti questi motivi la riforma del terzo settore è molto importante. E in particolare in essa sono decisivi i capitoli del servizio civile e delle nuove forme di finanziamento alle imprese sociali che consentono la remunerazione del capitale al di sotto di certi tetti massimi si remunerazione.
Il servizio civile è una palestra fondamentale dove poter sperimentare gratuità, solidarietà, fraternità, cooperazione e fiducia. Doti sempre più importanti nella vita economica e sociale e che rischiano di diventare progressivamente più scarse col passare del tempo perché vengono meno i canali tradizionali nei quali si investiva per costruirle. Fondamentale anche l’incontro tra capitali pazienti e imprese sociali e di terzo settore.
L’umanità sta lentamente cercando di passare da un modo schizofrenico a due tempi dove nel primo si crea valore in modo socialmente ed ambientalmente insostenibile e nel secondo stato ed enti filantropici tentano costosamente di apporre correttivi. Il traguardo all’orizzonte è invece quello di costruire un mondo dove le imprese producano già in modo sostenibile. La spinta enorme a procedere in questa direzione, volenti o nolenti, e nonostante il panorama culturale continui ad offrire prospettive misere è riduzioniste, è ancora la forza enorme della ricerca di senso dell’essere umano. Che vuole di più e capisce, ritornando al famoso paradosso della felicità di John Stuart MIll che sente vero dentro di sé, che si può essere molto molto più felici trafficando nell’economia di quanto lo si può essere quando si separano scelte produttive e bene comune
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