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La ricostruzione deve essere anche sociale e relazionale

La riflessione di Roberto Museo, direttore del CSVnet e terremotato di L’Aquila secondo cui, «occorre progettare sin da ora il dopo emergenza, pensando ad un forte presidio psicologico e sociale in un disegno organico. Gettare le basi per interventi di ricostruzione sociale e relazionale».

di Roberto Museo

Il 10 agosto scorso con mia moglie ed i miei tre figli eravamo rientrati dopo 2.675 giorni nella nostra nuova casa in L’Aquila ed è stata l’occasione per tornare di nuovo a sorridere dopo il terribile terremoto del 6 aprile 2009 ore 3.32.

Ma l’urlo della terra è tornato a risvegliarci il 24 agosto scorso alle 3.36 (coincidenza incredibile) tornando a far rivivere una lunga notte di paura, di dolore, di pensieri per gli abitanti ed i turisti del comprensorio di Amatrice, Arquata, Accumuli.

Quel minuto è stato l’ultimo minuto per 292 vittime, sarà l’ennesimo minuto ricordato per sempre dai famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra.

Oggi è il tempo della risposta immediata all’emergenza con l’intervento anche di tanti volontari e della grande solidarietà del nostro Paese che, purtroppo non riesce da decenni a prevedere un serio sistema di prevenzione dei rischi soprattutto in quelle zone dove da secoli quell’urlo della terra torna a farsi sentire periodicamente. Occorre altresì tener conto che il ciclo di vita di un disastro come quello di un terremoto prevede altre tre fasi via via più lunghe: il recupero di ciò che può essere rimesso in piedi, la ricostruzione in vista di una riutilizzazione funzionale e di una commemorazione, l’implementazione di strategie di resilienza. ​Ho compreso in questi anni che la resilienza è molto più che sopravvivere. È una capacità di rinnovarsi dopo una perdita. Di trasformare una ferita in un’apertura che lascia entrare una ​luce nuova. Di mantenere un equilibrio e un atteggiamento costruttivo di fronte a esperienze che ti schiacciano; di affrontare le avversità e uscirne persino rafforzati e più uniti.

​Un evento tragico come un terremoto non si cancella mai​, ma il dolore che ne consegue​ può renderci più umani, ​può aprirci gli occhi​ e vedere l'essenziale della vita, ci aiuta a vedere strade nuove.

Con questa forza occorre avere chiaro l’obiettivo prioritario: non abbandonare le persone e i luoghi colpiti dal sisma dopo un primo momento di visibilità.

Superata quindi la fase della prima emergenza si tratta di porre l’attenzione sulla ricostruzione sociale e relazionale.

La mia esperienza mi ha fatto capire che è necessario porre da subito l'attenzione sul futuro che si prospetta ai cittadini dopo un evento catastrofico come quello del terremoto, scegliendo di dire la verità seppure difficile e scomoda, senza facili promesse miracolistiche.

La cosa più importante non è solo la ricostruzione materiale delle case e delle chiese ma la presa in carico della sofferenza delle persone che in un minuto si vedono portare via tutta una vita. Se poi non c'è una chiara e strategica visione politica, tutte le risorse umane e finanziarie che si rendono disponibili rischiano di essere sciupate.

Occorre sin da subito presidiare socialmente in modo organico il territorio per capire come la gente si sente: il lutto non si sanerà mai completamente. È vivo in me il ricordo di uno psicologo dell'emergenza che sotto la tenda mi predisse: «quello che state vivendo ora è poca cosa, il peggio sarà quando arriverà il terremoto della mente». Occorre progettare sin da ora il dopo emergenza, pensando ad un forte presidio psicologico e sociale in un disegno organico. Tutte le parti interessate di quei territori (istituzioni, amministrazioni locali, terzo settore, gli stessi cittadini) devono stare insieme in questa lettura psicologica e sociale al fine di gettare sin da subito le basi per interventi di ricostruzione sociale e relazionale.

All’interno di questa visione la rete dei Centri di Servizio per il Volontariato si sta mobilitando in sinergia con i CSV del Lazio, Dell’Umbria delle Marche e dell’Abruzzo al fine di rispondere alla prima emergenza delle popolazioni colpite dal sisma in stretto collegamento con le strutture istituzionali preposte.

Sin da subito ribadisco occorre pensare al futuro, capire la situazione, cogliere i bisogni e impostare un lungo lavoro di sostegno e promozione. In questa prima fase gli interventi della Protezione Civile e delle Organizzazioni di Volontariato specializzate in essa sono provvidenziali e capaci di dare una prima risposta. Il passaggio dalle tende a strutture adatte per l’inverno (rigido in quei territori) e i piani della ricostruzione delle case costituiranno nelle settimane successive la priorità per il Governo e le istituzioni locali.

Nel quotidiano e nel concreto ci si troverà di fronte alle difficoltà di dover combattere contro il tempo, di dover soddisfare i bisogni fondamentali di gente che si è trovata senza niente e che per molto tempo sarà scossa emotivamente dal terremoto che non finisce, dall’inevitabile confusione, dai limiti oggettivi alle proprie azioni e relazioni, alle difficoltà economiche, alla paura di essere dimenticati.

Sullo sfondo ci sono i due rischi più grandi che sono diventati realtà nel terremoto aquilano anche se ha investito un capoluogo di regione:

  • Che la gente che si troverà a combattere ogni giorno contro la burocrazia, i disagi di un’organizzazione complessa, la precarietà quotidiana di casa, lavoro, scuola, sanità, relazioni, che abbia paura di sentirsi un giorno sola di fronte all’immensa fatica del ricostruire tutto da capo;
  • Che gli abitanti di Amatrice e del suo circondario perda senso e significato, che lì rischia di non trovare più in futuro le condizioni per ricostruire il suo futuro di lavoro, di affetti, di relazioni, di abitazioni e per questo abbandoni la propria terra.

L’amara verità che ho nuovamente interiorizzato durante queste ore è che il ritorno alla “normalità” antecedente l’evento disastroso rischia di essere una finzione. Come osservano gli studiosi, l’etnografia del disastro mostra una serie di pratiche che le popolazioni sinistrate mettono in opera al fine di “tornare al futuro”. La catastrofe, cioè, obbliga a reagire, a rispondere, a (ri)cercare un senso; quando una sciagura rompe il quotidiano di una comunità, si va alla ricerca dell’elaborazione di una nuova ragione di vita e di una nuova logica esistenziale, nella costante speranza di ricostruire una continuità che il disastro ha irrimediabilmente trasformato in un tempo sospeso.

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