Con la mano sul joystick mi muovo lentamente, percorrendo i lunghi corridoi del reparto dell’Unità Spinale di Niguarda. Il leggero ronzio del motorino elettrico della carrozzina non credo infastidisca i miei compagni di avventura e di degenza. Echi di risate, frammenti di programmi televisivi, silenzi sommessi, penombra o luce piena: dalle porte aperte o semichiuse delle belle camere a due letti si intuiscono destini incerti, apprensioni, speranze, tentativi ostinati di costruire una routine accettabile di umanità anche lontano dalla propria abituale dimensione familiare. Questa è l’officina delle spine dorsali interrotte o spezzate, storie di vite che hanno cambiato il loro corso in un istante, per un trauma imprevedibile, per un incidente che si immaginava potesse capitare sempre e soltanto ad altri. Età diverse, adulti ma anche ragazzini, adolescenti, uomini e donne. Nella domenica di pioggia costante in una Milano che sfoggia, anche da questi luminosi e ampi finestroni, il suo miglior grigio plumbeo di un autunno degno delle memorie passate, le visite si infittiscono. Parenti amici, con i sacchetti pieni di cose buone da mangiare, e magari perfino una bottiglia di vino per condividere una parvenza di normalità ritrovata. Non c’è tristezza, almeno non troppa. Solo lucida consapevolezza di tragitti e di esistenze che si stanno lentamente delineando nei loro esiti futuri. Io sono in fin dei conti un corpo estraneo, per molti aspetti, rispetto a queste vite in parte spezzate. Il mio destino genetico affonda le sue radici fin nella nascita, e dunque la scorza si è fatta dura, coriacea, incapace di lunghi cedimenti, e comunque convivo con la mia fragilità cercando di non farmi fregare troppo da queste ossa malnate, alle quali resto ostinatamente affezionato.
Percorro i corridoi non per curiosità, né per violare la privacy, non getto occhiate indiscrete dentro le camere, tiro dritto, anche per esercitarmi nella guida della carrozzina elettronica, non vorrei sfigurare, nelle prossime settimane, quando verranno a trovarmi i miei amici distrofici, loro sì autentici campioni di acrobazie e di piroette, di slalom e di passaggi al millimetro, mentre io ancora, ogni tanto, temo di schiantarmi contro uno stipite, o peggio, contro un muro. Me la cavo, meglio di quanto pensassi. Ma questo ostinato peregrinare nei corridoi mi ricorda tanto “Shining”, nella scena del bambino che percorre sulla sua biciclettina i corridoi dell’albergo affidato alla inquietante custodia invernale dello strepitoso quanto folle Jack Nicholson.
Continuo a girare in tondo anche per mettere ordine nei miei pensieri, per cercare di programmare i prossimi giorni, i passaggi obbligati di un tenace tentativo di avvicinamento al giorno delle dimissioni e del ritorno, controllato e protetto, a casa. La mia compagna e un gatto mi aspettano, non posso deluderli troppo. Mi sforzo, per quanto in mio potere, di trovare le soluzioni più efficaci per aggirare l’ostacolo di due gambe ingabbiate in docce di resina, ma inutili e ingombranti come due rami spezzati di un vecchio abete. Ecco perché oggi ho trascurato il computer e la rete. Ho fatto il pieno di energia interiore, di volontà, di introspezione. Ho respirato a fondo il clima ovattato di un ospedale del tutto speciale. Ho chiacchierato con gli infermieri del più e del meno. Ho gettato le monetine nel distributore automatico di caffè illudendomi di bere una tazza degna di questo nome. Ho lasciato che il tempo scorresse lineare e pigro, senza forzature, avvertendo dentro di me qualche segnale di stanchezza, di inquietudine, i nemici sottili e impalpabili che agiscono negli spazi profondi della coscienza e tentano, inutilmente, di fiaccare le mie energie migliori e collaudate.
E ora, alle dieci di sera, nel mio letto 14, scorro i commenti nel blog e le parole di incoraggiamento su facebook, un meraviglioso tappeto di voci diverse, vicine e lontane, che mi sorprendono per intensità e freschezza, delicatezza e talvolta affettuosa ironia. Alcuni di voi, lettori delle mie cronache dal letto 14, si stanno abituando a questo mio esercizio morale e di scrittura. Mi sento responsabile, e non voglio mancare, a giorni alterni, a questo appuntamento con me stesso e con voi. Non è un diario, ma solo un modo per condividere, abbattendo muri e barriere, invadendo per qualche minuto le vite altrui con questo mio microcosmo pullulante di umanità vera.
Mi rendo conto che negli stessi giorni il Paese sta vivendo altre fratture, osservo attonito le scene di dolore e di devastazione che rimbalzano dai notiziari televisivi. Cerco di appassionarmi alle cronache della interminabile agonia del governo, ormai raccontata come un reality scritto uno sceneggiatore logorroico che non riesce a trovare il modo per concludere la storia in modo convincente, con quel tanto di sorpresa finale che viene continuamente rimandata, perché intanto si mandano in onda i consigli per gli acquisti. Mi costruisco, con il telecomando, un personalissimo blob, tra promozioni di materassi in lattice, cartoni animati giapponesi, interviste a vecchi reduci della Democrazia Cristiana, pantomime di liti calcistiche costruite sul nulla, previsioni del tempo, spezzoni di film d’epoca. Un caleidoscopio di nonsense, che mi tiene compagnia anestetizzando il tempo e la paura.
Vivo dunque su più dimensioni, e la pienezza di questa esperienza non voluta si traduce in un trapestio di dita sulla tastiera, sfogo serale di un giornalista che si è inviato da solo in trincea. Accanto a me il mio amico egiziano Ibrahim continua a parlare con i suoi cari usando Skype. E con me si apre, giorno dopo giorno, per condividere perfino riflessioni religiose, e domande fondamentali e ultimative sul senso della vita. Fra poco spegnerò la luce, consegnando a voi la mia puntata dal letto 14. Perdonatemi, se potete.
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