Un ospedale per le parole: immagina anche questo Erik Orsenna, studioso francese che in un piccolo libro racconta le vicende di un’isola sperduta nella quale le parole prendono vita e provano sentimenti: gli articoli inseguono i nomi, gli aggettivi soffrono per l’infedeltà dei sostantivi, che volubili cambiano continuamente compagnia. Ma su tutto spicca l’ospedale con i suoi malati: esangui, tra le lenzuola bianche, giacciono per esempio due parole come “ti amo”, ricoverate per consunzione, in attesa di qualcuno che torni a dar loro vigore. Perché se sono esseri viventi, le parole possono anche ammalarsi.
Come sembra stia accadendo oggi a “responsabilità”. E’ sempre stata tirata per la giacca, basti pensare al mondo della politica, nel quale in circostanze critiche si usa parlare de “i responsabili”, riferendosi al gruppo che si distingue da altri – presunti irresponsabili – per scelte che salvano governi o simili.
Ma oggi è brandita da tanti soggetti quasi fosse un’arma risolutiva. Dai virologi, per esempio, che riuscendo a trovarsi d’accordo su molto poco, consultati come degli oracoli, approdano alla fine di ogni intervista all’appello alla responsabilità dei singoli cittadini come decisiva per uscire vincenti dalla fase X della pandemia. Tra questi Ilaria Capua che nel suo recente libro sul “dopo” che ci attende, ne fa il perno del processo di riconquista dell’equilibrio perduto tra noi e l’ambiente.
E già qui si comincia ad avvertire la fatica cui è sottoposta questa parola: responsabilità va in insufficienza respiratoria.
Anche le Nazioni Unite hanno rilanciato questo valore associandolo alla solidarietà in un report sull’impatto socio economico del virus intitolato Shared Responsability, Global Solidarity (responsabilità condivisa, solidarietà globale) sequenza che evidenzia, per esaltarla, la consapevolezza di quanto siamo interdipendenti noi e il mondo, singoli e comunità a ogni latitudine. Ed è stato un termine ospitato di frequente dagli editorialisti del Covid. Le Monde nei giorni più feroci del contagio pubblicava un fondo intitolato Coronavirus: la responsabilità di ciascuno: la crisi – si leggeva – ha ricordato a tutti, dirigenti politici, media e singole persone “i propri doveri” (ecco la responsabilità etica). Solo “dalla capacità della collettività di assumere le sue responsabilità dipenderà la resilienza per attraversare questa crisi” (responsabilità come mezzo di salvezza). C’è chi l'ha scelta per definire la materia prima dei nostri giorni, chiamati “The days of responsability”, e chi, come il New Yorker, ha rintracciato nella sua assenza il motivo per cui ci siamo trovati impreparati quando il virus ha preso dimora tra di noi.
Dunque se non è proprio ancora malata, per restare alla metafora di Orsenna, questa parola si sta stressando e merita di essere rianimata riscoprendone il significato originario insieme a quanto le è rimasto impigliato addosso nel tempo.
Responsabilità nasce da spondeo: in latino significa promettere, dare la parola, ma anche vaticinare, presagire il volere degli dei. All’idea di un impegno che ci si assume, associa l'evocazione del sacro.
Spondeo era l’atto del padre che si impegnava a dare in sposa la figlia (promessa sposa), ma anche quello del sacerdote che dava responsi. Di qui deriva responsabilità come “dover dare delle risposte”. E la lingua tedesca ne è lo specchio: responsabilità si traduce con Verantwortnung, che ha in sé Antwort, risposta.
Basta solo affacciarsi all’etimologia di questo termine e ci si trova di fronte a una relazione che essa contiene: quella tra un io e un tu, un rapporto che si può anche provare a regolare.
La parola originaria è poi scesa in “giardino” (come una grande grecista francese chiamava il luogo dove si giocano le parole), si è sporcata ed è cresciuta: è entrata con ruolo da protagonista nel linguaggio filosofico ed etico, nei dibattiti giuridici, fino ad arrivare a misurarsi con il rischio e l’incertezza: se ho una responsabilità significa che devo vigilare sulle conseguenze delle mie azioni, almeno della loro quota prevedibile; ma sono costretto anche ad accettare il fatto che maneggio rischio, non posso essere certo degli effetti negativi che posso innescare, pur involontariamente. Ed è a questa svolta che responsabilità si sposa con libertà, parola con le ali: la responsabilità chiama a scelte libere, e a sua volta la libertà non è libertà fino in fondo se non è responsabile.
L’alternativa è il precipizio nel “faccio quel che mi pare”, anticamera della barbarie, dalla quale vogliamo scappare a gambe levate.
A questo scopo abbiamo bisogno di lei, di responsabilità. Della sua versione fresca che riaccenda in chi la pronuncia la coscienza del capitale che ha accumulato e sa trasferire: invita a un percorso personale di testimonianza e di presenza.
Non si scrivono pagine di storia senza uomini e donne responsabili. Capaci di una promessa di bene che li tiene uniti a chi li ha preceduti, a chi sta loro accanto e a chi abiterà la stessa terra dopo di loro.
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