Famiglia

La reciprocità è irrinunciabile nel dialogo tra le civiltà?

Oggi reciprocità è un concetto usatissimo, dalle stanze del Vaticano alle chiacchiere da caffè. Il concetto si è imposto in maniera trasversale, e dalla sfera del dialogo fra religioni..

di Sara De Carli

Certo non può competere con supercalifragilistichespiralidoso, ma il rischio scioglilingua c?è. Forse è per questo che nel dizionario dell?italiano medio la parola reciprocità non è che fosse granché presente. Finché sono arrivate moschee, preghiera del venerdì e vignette. Oggi reciprocità è un concetto usatissimo, dalle stanze del Vaticano alle chiacchiere da caffè. Il concetto si è imposto in maniera trasversale, e dalla sfera del dialogo fra religioni ha colonizzato anche la cultura e l?economia, diventando la condizione delle condizioni, il presupposto senza cui nessun dialogo può più cominciare. Ma è vero che la reciprocità è condizione irrinunciabile per un rapporto giusto tra le civiltà? Lo abbiamo chiesto a Luciano Eusebi, docente di diritto penale. Che ci ha messo una pulce nell?orecchio. Anzi due. Primo, che la reciprocità debba essere condizione. Secondo, che garantisca una relazione giusta. Vita: Dove nasce l?idea di reciprocità? Luciano Eusebi: Ci sono due modi di intenderla. Uno è quello bello, alto, la reciprocità come io-tu, come riconoscimento dell?altro ad altezza di sguardo. L?altro è quello della giustizia come bilancia, di un comportamento che prende forma a partire dall?azione dell?altro. È un?idea che mettiamo in pratica ogni giorno, in tantissimi ambiti della nostra vita. Secondo questa idea si è giusti quando si misura il proprio comportamento sul giudizio che si è dato del comportamento altrui: al negativo segue un altro negativo, con il correlato che io faccio qualcosa di buono solo se l?altro ha fatto qualcosa di buono a me. In questa logica la giustizia non è un contenuto sostanziale, ma solo una questione formale di reciprocità, di calcolo rispetto all?agire altrui. Vita: Quindi reciprocità è un concetto che ha innanzitutto a che fare con l?idea di giustizia? Eusebi: Con questa idea di giustizia, che per sapere come agire verso l?altro prima devo averlo giudicato. E giudicare l?altro quando ancora non lo conosco, quando non ho ancora instaurato una relazione umana con lui, porta inevitabilmente a riscontrare nell?altro le dimensioni negative. Con un?aggiunta: quando giudico l?altro prima di averlo conosciuto come partner di una relazione, dentro una relazione, spesso lo giudico negativamente non per qualcosa di cui egli è veramente responsabile, ma solo per il ruolo che egli ai nostri occhi assume. L?extracomunitario come persona singola non mi ha fatto nulla, ma lo giudico negativamente in funzione del suo ruolo. Il malato terminale, l?anziano non autosufficiente, il bambino non atteso, li etichettiamo in un ruolo, in rapporto a noi e ai nostri schemi, e li giudichiamo negativamente. E poi, nell?ottica della reciprocità malamente intesa, ci autorizziamo a logiche di emarginazione o di cancellazione. Vita: Restiamo sull?attualità. Il tema per cui più spesso si invoca la reciprocità è quello dei rapporti con i paesi islamici: costruire nuove moschee, astenersi dal lavoro nel giorno festivo, avere l?ora di religione? Eusebi: Sono d?accordo con il cardinal Martino, che ha fatto capire che giustizia non è fare la reciprocità ma fare ciò che corrisponde alla dignità della persona. Giusto è chi riconosce sempre l?altro esistente come un tu, al di là del giudizio che ha di lui. La Dichiarazione universale dei diritti dell?uomo fa una scelta strepitosa: dice che la democrazia si fonda sul fatto che ognuno è preso in considerazione per la sua esistenza, non per un giudizio che un altro dà di lui. Questo richiamo è importantissimo per molte altre questioni di estrema attualità, dall?eutanasia all?embrione. Vita: Questo supera il problema della reciprocità? Eusebi: Certo, perché qui il mio comportamento parte dalla presa d?atto di un esistente, là da un giudizio che plasma il mio comportamento usando il comportamento dell?altro come misura. Léon Blum diceva: «Qualsiasi società che pretenda di assicurare agli uomini la libertà, deve cominciare col garantire loro l?esistenza». Se giustizia è riconoscere l?altro in quanto esistente, io devo fare ciò che riconosco come giusto al di là della reciprocità. Questa è l?unica prospettiva che ottiene davvero la reciprocità, perché se noi rispettiamo e promuoviamo la dignità e i diritti di ogni persona, quella sarà una buona ragione per dire: «Io lo faccio comunque, perché non lo fai anche tu?». In una relazione la reciprocità è da chiedere, ma non come condizione, bensì come obiettivo. Io non subordino il mio riconoscimento dell?altro e il rispetto della sua dignità alla reciprocità: io rispetto la tua dignità, e proprio su questa base potrò provocarti. Le testimonianze che tanti immigrati riportano nei loro paesi sono la carta migliore per mostrare che l?Occidente non ha soltanto strumenti di potenza economica e militare, ma è capace di un rispetto incondizionato della dignità della persona. Vita: Rinunciare alla reciprocità come condizione di partenza vuol dire anche rinunciare al giudizio sui valori? Questo non è un rischio? Eusebi: No, anzi. Se io non ho un?etica e penso di agire sempre secondo reciprocità, chi farà mai il primo passo? Io non sto parlando di una sospensione del giudizio su ciò che è male. Però dare un giudizio negativo su un comportamento non implica agire in termini difformi alla dignità dei soggetti coinvolti, il fatto che qualcuno abbia agito negativamente non mi autorizza ad agire negativamente. C?è una rivendicazione di dignità. Chi di fronte al male non agisce facendo il male dichiara di non esser disposto a mettersi sullo stesso piano di chi ha agito facendo il male. Dinanzi al male, fare progetti positivi è la sfida più grande della vita. E anche del penalista. Vita: D?accordo. Però pensiamo alla libertà. Non mettere la reciprocità all?inizio non vuol dire accettare che il valore della libertà non sia un valore universale? Eusebi: No. Vuol dire che il valore della libertà religiosa è così universale che io non posso rinunciarci nemmeno se tu ci rinunci. Poi certo, dobbiamo essere concreti, e allora dobbiamo essere più onesti. Invece di dire «prima di chiedere a me di rispettare i tuoi diritti, falli rispettare tu nel tuo paese per me», abbiamo il coraggio di usare strumenti di pressione differenti. Qualche volta dovremmo essere capaci di subordinare gli interventi economici al raggiungimento di alcuni passi in avanti nel rispetto della dignità delle persone. Penso ad alcune convenzioni di carattere economico o relative agli scambi commerciali, all?ammissione di un paese nel Wto? lì sì che si può dire «noi ti ammettiamo se queste condizioni verranno rispettate». L?ha fatto l?Unione europea con la Turchia, ponendo alcune condizioni economiche, ma non dicendo «rispetteremo la libertà religiosa dei turchi in Europa quando voi la rispetterete in Turchia per i cristiani». Però c?è un po? di ipocrisia: perché rispetto alla Cina, paese di grandissimo interesse economico, nessuno fa pressioni serie sul piano economico, sulle Olimpiadi o di quel che si vuole per dire «basta con la pena di morte»? Vita: Perché? Eusebi: Perché chiedere la reciprocità facendone una questione di principio è facile, mentre se si tratta di mettere di mezzo l?economico, qualcuno si tira indietro. Vita: Praticare questa nuova forma della giustizia, cosa vuol dire concretamente? Eusebi: Lo vediamo attraverso due dinamiche: il Sudafrica e i mediatori penali dei tribunali per i minori. In Sudafrica c?erano state da entrambe le parti gravissime prevaricazioni. Desmond Tutu e Nelson Mandela hanno inventato una giustizia diversa, secondo la logica del «ciò che verrà ammesso in termini di verità non verrà punito». Una chiave è questa, privilegiare la forza della verità. L?altro esempio è quello del tavolo di mediazione fra agente di reato e vittima: nel processo non ci si parla, non ci si dice la verità, perché se io mi apro alla verità mi danno più pena e più sofferenza. Il dialogo fra l?agente di reato e la vittima si realizza in un tavolo di mediazione a cui il giudice non è presente, dove agente e vittima si parlano e giungono alla definizione di un comportamento di riparazione estraneo alla logica vendicativa. Se dobbiamo fare uno slogan, invece di immaginare che data una frattura basta aggiungerne una seconda per rimettere a posto le cose, diciamo che giustizia è tentare di gettare un ponte su una frattura. Vita: Vede delle realistiche alternative alla reciprocità nel rapporto tra paesi occidentali e paesi islamici? Eusebi: Lavorare con serietà sull?universalità dei valori umani. Tutti i percorsi autentici, siano essi religiosi o laici, dovrebbero cercare un punto di convergenza sul riconoscimento dell?altro. L?altro non è mai una cosa. Se c?è una definizione del male che oggi può essere universale, per le religioni come per i laici, è questa: male è usare l?altro come se fosse una cosa. E poi valorizzare i percorsi religiosi autentici, liberandoli dalle interpretazioni politiche. Per il cristianesimo questo vuol dire tornare al cristianesimo come testimonianza dell?amore, e non come strumento di difesa di una civiltà intesa come struttura politica. Non ha senso. In questo modo penso che possiamo costruire non solo il rispetto ma l?amicizia.. Chi è Eusebi Nato nel 1957, bresciano, è ordinario di Diritto penale presso la sede piacentina dell?università Cattolica del Sacro Cuore. Si è occupato soprattutto di temi attinenti la riforma del sistema sanzionatorio, criticando la concezione retributiva della giustizia. Ha scritto La pena in crisi (Morcelliana) e Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale (Vita e Pensiero). Sposato, con quattro figli, è membro del Comitato nazionale di bioetica.


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