Welfare

La “ragion pratica” della tecnologia

di Flaviano Zandonai

Qualche giorno fa si è tenuto un interessante workshop al digitus lab dell'impresa sociale Stripes che si trova nel bel mezzo del cantiere dell'ex area expo. Un progetto – Mind – che prova a cambiare, su grande scala, gli approcci alla rigenerazione urbana e all'innovazione tecnologica scommettendo (anzi investendo) fin da subito sulla presenza di infrastrutture sociali (e relativi soggetti gestori) come quella che ci ha ospitati.

In realtà anche l'incontro era una specie di esposizione per addetti ai lavori: imprenditori e operatori sociali a contatto diretto con tecnologie costruite per arricchire la loro offerta di servizi educativi per bambini e ragazzi. Ma forse in questa presa di contatto c'era qualcosa in più, complice il fatto che molte di queste tecnologie, quelle robotiche in particolare, restituivano elementi in senso lato culturali che sfidavano gli approcci tradizionali ai servizi educativi.

Semplificando, probabilmente troppo, durante la giornata si sono incontrati da una parte i modelli educativi all'interno dei quali prendono forma servizi che nascono quindi in piena coerenza ad essi (ad esempio quelli per bambini da zero a sei anni) e dall'altra gli approcci decisamente più pragmatici e frugali che hanno alimentato "startuppari" (almeno della prima ora) ispirati al principio del "fare o non fare, non c'è provare" del maestro Yoda (a modo suo un educatore comunque).

In sintesi si è trattato di un'occasione per "educare gli educatori" a un approccio in parte nuovo, non tanto rispetto all'uso delle tecnologie ma al loro operato. Una forma mentis orientata non solo a ricondurre ad unità le loro azioni rispetto a framework educativi prestabiliti e certificati (solitamente in sede accademica), ma a percorrere il crinale, tutt'altro che agevole, che separa l'erogazione di prestazioni dalla capacità di abilitare modalità diverse di progettare e utilizzare ausili tecnologici. Un aspetto, quest ultimo, che, va ricordato, restituisce di fatto i caratteri più profondi dell'essere umano e in particolare del suo essere "animale sociale".

Come è andata quindi? Quali sono sono stati i principali elementi di apprendimento da questa esperienza tecnologica "immersiva"?

Il primo elemento riguarda, più che la conoscenza, la consapevolezza del carattere accessibile e pervasivo di molte risorse tecnologiche. Il fatto che siano sempre più trattabili come "materia prima" cambia in modo radicale le modalità di progettazione dei servizi, anche considerando il fatto, solo in parte paradossale, che il trasferimento tecnologico sugli utenti finali è già, nel bene e nel male, compiuto. Sono quindi i produttori tradizionali che si trovano spesso a dover inseguire, dotandosi di competenze necessarie non solo in termini strettamenti "applicativi" (come si usa la tecnologia), ma per saper cogliere anche il carattere "generativo" della tecnologia stessa in termini di effetti e prodotti indiretti (ad esempio i dati o le forme di aggregazione sociale per una migliore progettazione ed esperienza d'uso).

Il secondo elemento di apprendimento consiste nel riconoscere l'adattabilità delle tecnologie. In molti casi queste sono modificabili al fine di poterle utilizzare per scopi molto diversi, ma l'atto stesso della modifica si ispira a sottostanti di natura culturale e di "stile" spesso alimentati da quelle che su altri fronti si chiamerebbero "comunità educanti" (hacker e maker ad esempio). Ma oltre a questa capacità di modificare i codici sorgente va comunque rilevata anche la flessibilità crescente di tecnologie pronte all'uso (plug & play) le quali vengono sempre più spesso progettate per funzionare all'interno di sistemi complessi, risultando al tempo stesso compatibili e arricchenti.

Terzo elemento di apprendimento è il carattere educabile della tecnologia affinché essa risulti "aumentata" proprio nel suo potenziale educativo. Ciò significa che la cultura d'uso rappresenta il principale "valore aggiunto" a fronte di artefatti che come si ricordava in apertura sono ormai parte integrante, praticamente naturale, dell'umano e del suo ambiente. A fare la differenza sono quindi i libretti delle istruzioni, oppure, come ricordava Francesca Bria su Wired, le clausole che stabiliscono i termini e le condizioni d'uso. Più questi – e non solo la tecnologia in sé – sono l'esito di processi di codesign partecipato e più si potranno abilitare forme d'uso consapevoli e innovative, in grado di generere significati ovvero l'opposto dell'assuefazione.

Questi elementi di apprendimento presentano diversi punti di caduta: dall'esercizio di ruolo degli operatori, agli investimenti tecnologici, fino alla costruzione delle politiche ma anche, e non da ultimo, investono anche le organizzazioni, in particolare in quelle che riconoscono nell'educazione non solo un settore di attività ma la propria missione.

Ecco quindi alcune indicazioni di change management riconducibili alla gestione dell'impatto tecnologico:

– in primo luogo sembra necessario incrementare la capacità di assorbimento derivante da tecnologie troppo spesso utilizzate solo come "ciliegina sulla torta" piuttosto che come vettori di cambiamento dei core business;

– in secondo luogo emerge la capacità di saper ritornare sull'investimento in innovazione tecnologica sia in senso stretto (cioè in termini di break even economico e finanziario) sia in termini di impatto sociale;

– in terzo luogo le tecnologie possono accelerare l'introduzione di modi diversi di guardare alle sfide che l'organizzazione vuole affrontare e al relativo bagaglio di competenze con cui intende attrezzarsi attingendo non solo a skill tecnico specialistiche ma anche a nuove motivazioni e valori;

– infine l'innovazione tecnologica tipica di quest epoca impone alle organizzazioni di dotarsi di una capacità peculiare, ovvero saper promuovere e gestire processi di apertura; l'innovazione consiste quindi nel saper attrarre ma anche discriminare tra una pluralità di risorse operando all'interno di ecosistemi allargati e complessi.

Un seminario utile quindi, anche per misurare la capacità dell'impresa sociale di essere all'altezza di una sfida come quella posta dal progetto Mind. Se è (relativamente) facile infatti immaginare un ruolo di sub contractor per dare un tocco "social" alla rigenerazione dell'area, rimane in buona parte da testare la capacità di queste imprese di diventare parte integrante di una catena di produzione dove il valore della conoscenza e dell'innovazione – il grande mantra delle politiche e degli investimenti degli ultimi decenni – sia condiviso per davvero.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.