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La quarantena e la fame nella Villas miserias

Sono le “città della miseria”, grandi quartieri alla periferia di Buenos Aires. Qui la quarantena ha creato emergenza sui bisogni più elementari. Un operatore italiano, che lavora alla mensa attivata nella parrocchia della Carcova di padre Pepe, sta tenendo un diario di questi giorni di dramma e di speranza

di Lucio Brunelli

Si chiama Alver, Alver Metalli. Il suo nome è una sfida al buon Dio e uno sberleffo ai preti. Il padre, romagnolo verace, comunista e anticlericale, scelse di chiamare così il suo primo figlio per fare un dispetto al parroco che dal pulpito aveva messo in guardia quelli come lui: niente nomi strani, solo nomi cristiani… o niente battesimo! Per oltre mezzo secolo Alver ha avuto il dubbio se fosse mai stato battezzato, solo di recente ha scoperto in una chiesa di Riccione la prova della sua iniziazione cristiana: evidentemente la mamma, che non voleva una guerra col marito, era riuscita a trovare un sacerdote più indulgente.

Ironia del destino. Alver, dopo una giovinezza inquieta e libertina, divenne un cattolico fervente. Di più, un seguace di don Giussani, che gli voleva bene come un figlio. Di più, un membro dei Memores Domini che sono una sorta di monaci senza abito, laici che prendono i “voti” restando laici.

Innamorato dell’America latina, giornalista e scrittore, Metalli da sei lustri vive a Buenos Aires. Nel 2014, quasi sei anni fa, decise di lasciare la villetta borghese dove viveva con altri amici dei Memores per trasferirsi in una villa miseria, letteralmente “città della miseria”, insomma quella distesa di casupole illegali e baracche di legno cresciute nella periferia della capitale argentina dove opera un gruppo di preti amatissimi dal cardinale Bergoglio. Fra loro, il più famoso è Josè Maria di Paola, detto padre Pepe. Alver gli è diventato amico e si è messo al suo servizio, nell’umile parrocchia della Carcova, dove il sole del buon Dio ora “dà i suoi raggi” in mezzo ad una povertà e ad una violenza per noi inimmaginabile.

Negli ultimi anni nelle villas miseria sono sorte mense, scuole professionali, centri sportivi, case ricovero per drogati e alcolizzati. Soprattutto tante anime si sono riavvicinate a Dio dopo averne combinate di tutti i colori nella vita.

Ora anche lì è arrivata la “peste”, gli abitanti della villa la chiamano così. Nelle casupole, dove vivono ammucchiate molte persone, le distanze di protezione sono un obiettivo arduo, un lusso che non possono permettersi. Il telelavoro, poi, non sanno nemmeno cosa sia: la gente vive di lavoretti, tipo il riciclo di oggetti trovati nei depositi di spazzatura a cielo aperto. Con una città sigillata, come le nostre, questi espedienti per vivere non sono più possibili. E la fame s’avanza.

Alver Metalli si fa in quattro con padre Pepe e gli altri preti per aiutare la gente. Ogni giorno distribuiscono cibo a chi inizia a soffrire la fame. E intanto ha iniziato a scrivere un diario di ciò che ogni giorno vede e sente nella villa. Vi presentiamo i resoconti di alcune delle giornate sulla prima linea della Carcova. La prima pagina racconta proprio la telefonata con il suo papà 97enne, quello che oltre mezzo secolo fa gli impose un nome in apparenza così poco cristiano.


TERZA GUERRA MONDIALE
GIORNO I (20-3)
Telefono a mio babbo in Italia per sapere come sta. Ha 97 anni e tutta la sua vita è trascorsa a Riccione. Negoziante, commerciante, pensionato. Si avvicina al momento del grande viaggio senza scossoni, e questo del coronavirus non gli fa paura. Gli dico che anche dove vivo io, in una villa argentina alla periferia di Buenos Aires, oggi è iniziata la quarantena. Ha pena di me, mi pensa indaffarato ad occuparmi degli altri e quindi più in pericolo di quanto non lo sia il resto della popolazione argentina. Mi chiama figlio, “figlio mio”. Non l’ha mai fatto. Poi, con il respiro affaticato, va con il pensiero alla Seconda guerra mondiale, quando era appena ragazzino. «Ci nascondevamo dai tedeschi figlio mio, per non essere presi e portati in Germania a lavorare, ma adesso, da questo, non possiamo nasconderci». Questo è il coronavirus, una parola tecnica troppo difficile per i suoi anni, la peste come la chiamano gli argentini nella villa. Ricorda con più facilità che la linea del fronte passava poco distante da casa, nel riminese, gli alleati liberatori spingevano avanzando dal sud e i tedeschi occupanti retrocedevano verso nord caricando sui camion delle braccia giovani da portare in Germania a lavorare. Lui si è nascosto e l’ha fatta franca. È il suo modo di stabilire una comparazione, di prendere le misure a questo killer invisibile che colpisce dove vuole, a questa peste che è acquattata fuori della porta e scruta le sue prede, pronta ad entrare e ghermire chi ha molto vissuto.

PANE QUOTIDIANO
GIORNO VI (25-3)
Le file aumentano in lunghezza come i giorni di quarantena. Trecento pasti, cinquecento, ottocento, 1500 e passa il sesto giorno di quarantena. Non c’è dubbio che aumenteranno ancora. I circuiti del cartone si sono chiusi e chi viveva della raccolta, i cartoneros come vengono chiamati, non va in giro a raccattarli per venderli. I riciclatori di rifiuti non sciamano più con i loro carretti dove gli ammassi di spazzatura sono più promettenti. Anche chi viveva di lavoretti, tagliare l’erba nel giardino di qualche casa, verniciare un cancello o qualche facciata, svuotare uno scantinato, non ha richieste. I manovali che vivono nelle villas, molti provenienti dal Paraguay, sono con le mani conserte. L’economia informale, come si suole chiamarla, è ferma, il microcircuito di compravendita che manteneva in vita la popolazione della villa è interrotto. Nutrirsi diventa un assillo quotidiano.

STUFATO FUMANTE
GIORNO X (29-3)
Nella villa del padre Pepe si distribuisce un piatto caldo tutti i giorni a mezzogiorno da quando è iniziata la quarantena.
Lo preparano degli uomini e delle donne che vivono in questo modo il loro isolamento. Mettono a repentaglio la loro sicurezza, come del resto le persone che vengono a mangiare spinte dalla necessità. Pelano patate, tagliano cipolle, cucinano, servono i piatti, lavano le stoviglie, con tutte le cautele del caso. Non vogliono ammalarsi, ci tengono alla salute e alla vita, hanno tutti figli, nipoti, nonni che li aspettano a casa. Tra loro ci sono muratori, domestiche, donne che prestano servizio in case benestanti dei quartieri vicini, impiegati comunali e tanti altri che il lavoro non ce l’hanno e vivono di changas, come gli argentini chiamano quelle occupazioni precarie che aiutano a sbarcare il lunario. Per tutti il lavoro è sospeso e danno il loro tempo e le loro energie al bisogno degli altri. Senza niente in cambio eccetto un piatto di quella stessa minestra che cucinano per chi viene a mangiare nella parrocchia di padre Pepe. I poveri, i bisognosi, fanno la fila davanti al cancello del Milagro e se ne vanno con il bottino in mano ancora fumante.

VITE IN FILA
GIORNO XV (05-4)
La vita dei villeros trascorre in una fila perenne e nei giorni di quarantena nella villa, quando più i contatti dovrebbero diminuire e le prossimità distanziarsi, le file si allungano. Alle sei e mezza del mattino, alla spicciolata, la gente della villa comincia a formare i primi crocchi davanti alla cappella del Milagro. Volti mesti di provincia impastati di polvere e silenzi, del Chaco, di Santiago dell’Estero, di Corrientes e di Misiones. Vengono a prendere una borsa di alimenti che dovrà durare tutta la settimana, con dentro cinque chili di prodotti, olio, cacao, latte, zucchero, purè di pomodori, pasta, riso, lenticchie, l’erba mate di largo consumo in questi posti, e qualche confezione di scatolette. Quando arriva il loro turno e possono abbandonare la fila è il momento di formarne un'altra, per ricevere il pranzo da consumare seduti sul marciapiedi o nella propria casa. Si ricomincia il giorno dopo, altre file, questa volta per declinare le proprie generalità ed accedere al sussidio straordinario di 10.000 pesos disposto dal governo per attenuare gli effetti devastanti della crisi nei settori più popolari. Un'altra fila, questa di centinaia di metri, li attende poco distante dalla villa, al bancomat, per ritirare il denaro erogato sul loro libretto di risparmio. Fila per la vaccinazione antinfluenzale nell’infermeria ai margini della villa, fila per la spesa davanti ai supermercati di quartiere, fila nelle verduriere.

CUOCA DEI POVERI
GIORNO XVII (07-4)
Sebastiana spalanca la porta della cucina con la prima luce del giorno e capisce in un istante cos’è avvenuto in sua assenza. Chi vi ha mangiato, chi ha dormito, chi ha saziato i diversi appetiti. Si rimbocca le maniche con vigore d’uomo, prende il sacchetto dell’immondizia e tira dentro gli eccessi della notte con precisione da chirurgo. Devono scomparire dalla vista, e l’olfatto non esserne ferito. Poi strofina con l’alcool in gel le stoviglie una ad una. In tempo di quarantena devono essere limpide e monde.
Prima di venire a vivere nella villa si è presa cura di una donna anziana fino alla sua morte. Una morte da ricchi in una casa da ricchi. Adesso fa la cuoca in una mensa di poveri, nella cappella della villa miseria dove padre Pepe ha piantato la sua base, e dove i commensali arrivano senza preavviso e si siedono per mangiare. Ha dipinto la tavola di legno con vernice azzurra. La tavola si allunga e si restringe come una fisarmonica tutti i giorni, finché l’ultimo arrivato non si è sfamato.

ANIME FERITE
GIORNO XVIII (09-4)
Padre Pepe esce dalla stanza quando il sole non è ancora spuntato, come tutte le mattine di quarantena. Attraversa il cortile fino alla vasca della lavanderia. Piega la testa in avanti e apre il rubinetto. Lascia scorrere l’acqua per un buon tempo. Inizia in questo modo un altro giorno di bene, lavando i suoi lunghi capelli stinti dalle intemperie. Alla sua porta c’è già chi tende la mano. E l’anima ferita.

PERDONO
GIORNO XIX (10-4)
C’è più comprensione nella villa, e la vita è apprezzata come mai prima. Dei torti che opponevano uno con l’altro si sono sciolti, delle lontananze sono sparite, delle separazioni mitigate e talune divisioni sono meno intransigenti. Il perdono, nei giorni della peste, si è imposto come l'esperienza umana più pacificante. E si capisce il perché. Basta guardare al bambino. Un uomo adulto, allo stesso modo del bambino, si sente più sicuro nell’abbraccio di chi lo ama. Il perdono è anche l’esperienza più mobilitante; più e più profondamente di qualsiasi autocritica o di un saggio incitamento a correggersi. Non che l'una e l'altro non traggano beneficio: quantomeno, se cordialmente ricevuti, sono indice di un animo malleabile. Solo che il perdono e la correzione sono due cose diverse, appartengono ciascuna a due differenti movimenti dell'animo. L'efficacia del perdono è superiore agli esiti migliori della fatica del ravvedimento.

STRAPPI
GIORNO XX (11-4)
Quello che si è temuto con consapevolezza ottusa, comincia a succedere per davvero. La peste si porta via anche gli amici. I WhatsApp che ne annunciano la partenza hanno un sapore amaro. I ricordi crepitano come fiamme tra le stoppie. Gli strappi da chi se ne va scuotono l’essere di chi resta. La morte degli amici addolora, e ci fa pensare alla nostra. E a quel che ci aspetta. A chi ci aspetta, quando la coscienza è avveduta. Forse è il modo con cui la natura rende l’inaccettabile un po’ più familiare a noi stessi.

OSPEDALE DI CAMPAGNA
GIORNO XXI (12-4)
La Chiesa nella villa, più che mai in questi giorni, è un ospedale di campagna, per usare una immagine tutta bergogliana. Anzi, una parola coniata da Bergoglio una volta eletto Papa, di cui non esiste traccia nel suo passato. L’espressione l’ha usata per la prima volta nei colloqui di agosto (19, 23 e 29) 2014 con il direttore di La Civiltà Cattolica. Lì Francesco, con appena un anno di pontificato sulle spalle, tracciò un identikit inedito di sé, senza nemmeno trascurare le sue preferenze artistiche. Nelle risposte analizzava il ruolo della Chiesa oggi e indicava quelle che a suo modo di vedere dovevano essere le priorità dell’azione pastorale. In un passaggio dell’intervista, riprendendo l’incipit della domanda dell’intervistatore il gesuita Antonio Spadaro, parlò della Chiesa come di un ospedale di campagna dopo una battaglia. «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità». Ed ecco l’espressione fausta: «Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso». Sono parole che rilette oggi, 12 aprile, ventunesimo giorno di quarantena, hanno una letteralità di applicazione impressionante.

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