Non profit

La qualità della vita nei pazienti affetti da leucemia mieloide

Presentata a Roma l'indagine condotta da Ail e Gimema

di Maurizio Regosa

A quasi dieci anni dall’avvento di Glivec, una ricerca interamente italiana, la prima di questo genere nel mondo, studia la qualità di vita dei pazienti. Medici molto scrupolosi nell’informazione sulla terapia ma meno attenti a comunicare ai pazienti i possibili effetti del farmaco sulla vita sociale e familiare. Pazienti che godono di una buona qualità di vita e risentono solo di alcuni effetti collaterali quali stanchezza, affaticamento e crampi muscolari. Sono questi i primi dati di uno studio sulla qualità della vita delle persone affette da leucemia mieloide cronica e in terapia con Glivec, il farmaco rivoluzionario che, all’inizio degli anni 2000, ha ridato un futuro a questi pazienti, garantendo alti livelli di sopravvivenza in una malattia che un tempo non lasciava praticamente speranze (In Italia ogni anno circa 1.000 persone ricevono una diagnosi di leucemia mieloide cronica, malattia la cui incidenza aumenta con l’età: il 65% dei pazienti ha più di 65 anni).

Lo studio, promosso da Ail – Associazione italiana contro le leucemie, linfomi e mieloma insieme a Gimema (Gruppo italiano malattie ematologiche dell’adulto),e sostenuto da Novartis, è stato presentato stamani a Roma. Dai risultati della ricerca, che si concluderà nel 2010, gli ematologi italiani si attendono delle evidenze scientifiche di assoluto rilievo internazionale, utili per migliorare sempre più la qualità dell’assistenza medica per questi pazienti. 

«È un segnale molto importante che, negli ultimi tempi, si valuti non solo la durata ma anche la qualità della vita del paziente», ha spiegato professor Franco Mandelli, presidente dell’Ail, «Questo vuol dire che non ci accontentiamo più di far vivere più a lungo il paziente, se possibile di guarirlo, ma di valutare quanto costa in termini di qualità di vita al paziente ed ai familiari il suo percorso di cure».

Nello studio sono coinvolti 27 centri ematologici afferenti al Gimema, distribuiti tra nord, centro e sud. L’obiettivo è valutare una serie di parametri legati alla percezione dello stato di salute in pazienti in trattamento con imatinib da almeno 3 anni (con risposta citogenetica completa) e che oggi, grazie a questa terapia, possono condurre una vita normale.

Ma fino ad ora la qualità di vita di questi pazienti non era mai stata “misurata” dal punto di vista scientifico. «Sappiamo che questi pazienti vivono di più, ma non sappiamo “come” vivono: sono a tutt’oggi sconosciuti gli effetti sul paziente della cronicizzazione della malattia», ha aggiunto Fabio Efficace, responsabile studi sulla qualità della vita Gimema, «Il nostro studio ci fornisce queste importanti informazioni, relative soprattutto alle aree della qualità di vita maggiormente inficiate dalla terapia: gli aspetti sociali, la sintomatologia, l’aderenza alla terapia, il livello di benessere psicologico e il supporto sociale».

I risultati preliminari indicano che, sebbene la totalità dei medici pensi di avere adeguatamente informato i pazienti su gestione, dosaggio ed effetti della terapia, in molti “ammettono” di non aver fornito molte informazioni riguardo i possibili effetti della terapia sulla vita sociale e familiare del paziente. Per i pazienti che assumono imatinib da molto tempo, i tre sintomi ritenuti più rilevanti dai medici sono la stanchezza/affaticamento, i crampi muscolari e l’edema (problemi di gonfiore).

Solo in pochissimi dei pazienti trattati con imatinib si sono manifestati fenomeni di resistenza alla terapia: «i pazienti in trattamento con imatinib devono essere monitorati ogni 3 mesi, per vedere se compare una resistenza, se la malattia molecolare ricompare prima ancora dei sintomi», ha spiegato Giorgio Lambertenghi Deliliers, vicepresidente della Sie, la Società italiana di ematologia, «in questi casi è importante agire e trattarli con i nuovi inibitori della proteina tirosin chinasi, che hanno un’attività superiore ad imatinib. È oggi ormai una linea guida trattare i pazienti con nilotinib non appena ricompare la malattia».

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