Non profit

La public company della salute

Apriranno in autunno i primi centri di Welfare Italia

di Redazione

«Il nostro target potenziale è il 65% degli italiani. Inizieremo con 130 poliambulatori, di qualità e low cost. Così il sociale esce dalla nicchia». Intervista a Johnny DottiIl welfare di domani sarà una public company. Di cui potrebbe essere socio il 65% delle famiglie italiane. È questo il sogno di Johnny Dotti, già presidente di Cgm e ora amministratore di Welfare Italia, il marchio creato da Cgm per uscire dalla logica dell’assistenza di Stato. A dare ali al cambio di rotta è quel 65%, che dice (grida) come i servizi sociali e alla persona non potranno più essere rinchiusi nella nicchia degli svantaggiati e dei loro samaritani. Facile dirlo, difficile farlo, soprattutto perché la novità si misura in un “non”. Il primo requisito che il welfare della cura dovrà avere, per essere nuovo, è che non dovrà essere funzionale.
Vita: Cioè?
Johnny Dotti: La cura deve essere molto più che dare assistenza o erogare un servizio. Cura come identificazione antropologica, non come funzione sociale. Tu puoi avere anche una società che funziona bene – non è il caso dell’Italia, che ha anche un problema di funzionamento – ma se perdi il senso delle cose, il significato, è finita. E i significati stanno dentro le relazioni, tra cui anche le relazioni di cura: è la differenza tra l’uomo e l’animale, l’uomo si prende cura dei feriti, l’animale li uccide. Il problema della modernità è recuperare la comunità, altrimenti la società diventa anonima e pericolosa.
Vita: Come descrivere, in cifre, la comunità della cura di Welfare Italia?
Dotti: Welfare Italia vorrebbe essere un pezzo di luogo che ricrea luoghi di cura. Nello specifico, per noi, questo passa attraverso l’idea di aprire 130 centri sanitari, che non saranno piccoli ospedali ma luoghi aperti, prevalentemente diurni e non residenziali, dove ci sono persone competenti disponibili ad accogliere i bisogni ma soprattutto si cercherà di mutualizzare i bisogni. A regime, tra cinque anni, dovrebbero lavorarvi 2mila persone. Il tema però non è tanto la prestazione sanitaria ma l’avere un luogo dove sai che qualcuno si prende cura di te e dove tu puoi prenderti cura di qualcuno. Noi immaginiamo di avere come riferimento il 65% delle famiglie italiane: riuscire a intercettarne il 5-10% sarebbe già un bell’obiettivo.
Vita: Vuol dire che l’utente del welfare non è solo il soggetto bisognoso?
Dotti: È questo il punto! La cura deve riguardare tutti, non solo quelli che sono già esclusi o ai margini. Tutti oggi viviamo un bisogno di incontro, di relazione, di cura appunto. Io sogno una public company in cui tutti avranno una loro parte, perché quella cosa lì è anche loro: non clienti o utenti, ma soci.
Vita: Perché non avete paura di giocarvi sul mercato?
Dotti: Vent’anni di cooperazione sociale insegnano che bisogna uscire dalla nicchia e questo vuol dire acquisire una competenza economica che riguarda tutti, non solo un comparto supportato dalla finanza pubblica. Il problema è che oggi la cura non fa i conti con l’elemento economico: è il mondo dove i servizi si “erogano”. Risorse e costi sono sempre decisi da qualcun altro. Io sono convinto che il costo di una prestazione è anche elemento di generazione del valore, che esiste un’economia della cura. Le persone vanno rese responsabili anche della retta che pagano: in Welfare Italia la gente pagherà i servizi, in modo – intanto posso dire così – equo.

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