Welfare
La pseudo-etica di lavorare nel non profit
Come coinvolgere i grandi manager
Quando ricerco un fundraiser per una organizzazione non profit, spesso, pur spaziando ovunque, mi si propone una scelta che va da uno a tre candidati qualificati, mentre se mi capita di vedere ricerche per il settore profit la rosa di candidati è sempre più numerosa. Molti miei coetanei che lavorano in aziende profit collaborano con organizzazioni non profit nel loro tempo libero, ma si guardano bene dal cercare un lavoro nel non profit! Anzi, in molti si “liberano del tempo” dal loro lavoro principale per aiutare una o più azienda non profit come volontari. Molti di loro sono persino manager di successo, ma mi confidano di essere stanchi del loro lavoro (retribuito) e che nel non profit (gratuitamente) ritrovano il piacere di creare e di fare. Riusciamo a immaginare quale sarebbe il valore aggiunto che il mondo ne riceverebbe se solo si dessero a queste persone degli incentivi per dedicarsi a tempo pieno al mondo non profit?
Con tutta la nostra pseudo-etica dello “stipendio basso perché siamo nel non profit”, incoraggiamo i giovani a cercare la propria fortuna fuori, a utilizzare tutta la loro creatività per vendere polizze o conti correnti bancari piuttosto che a utilizzare le loro energie per gestire associazioni sportive o scuole private, o associazioni culturali. Il massimo che riusciamo a ottenere è che al termine della carriera, quando hanno raggiunto il tenore di vita a cui aspiravano, (magari a 60 o 65 anni), li invitiamo a rivestire cariche importanti nel non profit e a diventare consiglieri di amministrazione di questa o quella cooperativa sociale! Non è questa la soluzione, questo è il problema. È necessario quindi mettere i giovani nella condizione di potersi dedicare a tempo pieno alla risoluzione dei grandi problemi della nostra società, in modo che da promettenti laureati diventino anziani e saggi, ma sempre al servizio del non profit.
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