Circa un anno fa Papa Francesco pronunciava le seguenti parole: “Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare”.
L’autorevolezza della fonte e la profondità della critica avrebbero dovuto spingere tutti coloro che operano nel terzo settore ad affrontare il tema, magari dando vita ad un dibattito che certo avrebbe aiutato la nostra società a meglio affrontare le sfide che le attendono. Invece queste parole hanno generato il più assordante dei silenzi e sono state presto dimenticate.
Questo silenzio è un preoccupante indicatore della profonda crisi identitaria che caratterizza il privato sociale in Italia e nel mondo. Probabilmente i più sanno che le parole del Papa sono vere, ma temono che non vi siano alternative, che questo sia l’unico mondo possibile, che piuttosto che niente è meglio piuttosto, anche se si tratta di un piuttosto molto amaro che, in realtà, nega alla radice la ragione del loro impegno, ma, in fondo, basta non pensarci e far finta di niente, concentrandosi sugli infiniti problemi pratici che ognuno di noi deve affrontare quotidianamente per fare andare avanti la propria organizzazione.
Oggi è relativamente facile riconoscere i fallimenti di una società che ha fatto del benessere il proprio fine, ma vede aumentare il consumo di droghe e psicofarmaci; che ha fatto dell’efficienza economica il suo mantra, ma ha generato il sistema più sprecone ed insostenibile che si potesse immaginare; che ci vuole tutti connessi, ma nel contempo distrugge i legami generando schiere di individui sempre più isolati e fragili. Sembra però che non vi siano alternative. La storia ci ha insegnato che la rivoluzione necessariamente tradisce se stessa e che le tanto invocate riforme non possono, per definizione, affrontare una crisi strutturale, dato che non si tratta di correggere semplici disfunzioni, ma è necessario cambiare il paradigma su cui è fondata la nostra società.
Riconoscere questo fallimento è un primo passo, ma non basta e rischia di aumentare solo la frustrazione se non si è in grado di sviluppare una ragionevole speranza che questa situazione possa cambiare. Si tratta di comprendere come vi sia un’alternativa a rivoluzioni e riforme, che la tanto invocata terza via esiste ed è stata sperimentata con notevole successo proprio nel nostro Paese: essa si chiama Rinascimento o Risorgimento, che altro non sono che la riscoperta di una verità che era stata per lungo tempo dimenticata, ma che, una volta fatta rinascere, ha permesso alla società di fare un salto di qualità. In altri termini dobbiamo domandarci se anche oggi esista qualcosa che, come la riscoperta della tradizione classica alla fine del Medio Evo o dell’identità nazionale nell’800, ci permetta di scorgere nuove prospettive che ci consentano di andare oltre le contraddizioni del presente.
Per poter funzionare deve trattarsi di qualcosa che esiste, che abbia in sé i principi necessari per superare le aporie che contraddistinguono la nostra società e soprattutto che non sia comprensibile dal pensiero moderno, pensiero estremamente potente, in grado di tutto fagocitare, anche se ormai privo delle speranze che ne hanno accompagnato la nascita e che si sono rivelate delle tragiche illusioni. Ebbene questo qualcosa esiste ed è ben presente nella vita di ciascuno di noi, anche se spesso, proprio perché non abbiamo più le categorie per comprenderla, non siamo in grado di riconoscerla. Questo qualcosa è il dono.
Il dono è in realtà parte fondamentale della nostra vita e credo non sarebbe difficile dimostrare che un ente commerciale, per quanto volto al conseguimento del profitto, non potrebbe che fallire se, al suo interno, non ci fossero delle persone che vivono il dono e che fanno ciò che è necessario, anche quando non previsto dal contratto, anche se sono consapevoli che spesso non ne riceveranno nulla in cambio, semplicemente perché è giusto. Il dono è stato considerato dalla modernità un residuo arcaico destinato ad essere dimenticato, tanto che le categorie che spesso utilizziamo (egoismo/altruismo) sono assolutamente inadeguate a coglierne l’essenza. Il dono infatti non è una rinuncia, ma, al contrario, uno scambio fondato sulla libertà e quindi, da un certo punto di vista, particolarmente rischioso, ma quando funziona, proprio per questo, infinitamente più gratificante di qualsiasi altra tipologia di scambio.
Il dono ci permette di andare oltre il moderno e di superarne le contraddizioni. Il dono, per definizione, crea legami e contrasta l’isolamento, nel dono la cosa scambiata è meno importante della relazione che si genera e ciò consente di ricondurre il denaro e il potere alla loro funzione, che è quella di essere mezzi e non fini. Il dono, in ultima analisi, aiuta ciascuno di noi a riscoprire il senso del proprio agire e a ritrovare quel benessere autentico a cui, in realtà, tutti aneliamo.
Vivere il dono, in una società che ne ha negato l’esistenza e che, proprio per questo, lo vede con sospetto (provate a vendere una casa che avete ricevuto in donazione e capirete cosa ciò significhi) non è affatto facile. Per questo è necessaria un’infrastruttura sociale che abbia come fine proprio quello di aiutare le persone a vivere il dono e soprattutto un soggetto storico che abbia un interesse oggettivo e soggettivo a promuoverne la diffusione.
È evidente che le organizzazioni che perseguono finalità d’utilità sociale hanno tutto l’interesse a farsi promotrici di questo processo e credo che, oggi, questo sia il loro autentico ruolo storico, ben più fondamentale di pur importanti servizi che erogano, ma che, se non vogliono diventare semplici palliativi che “perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare” devono porsi al servizio di una visione più vera e profonda. Perché ciò sia possibile è necessario per queste organizzazioni dotarsi degli strumenti necessari, ma soprattutto fare della promozione del dono una parte integrante della loro identità e non un semplice espediente per raccogliere fondi con cui finanziare le proprie attività.
Oggi, grazie agli strumenti messi a disposizione di intermediari filantropici come Fondazione Italia per il dono, anche gli enti più piccoli possono dotarsi dell’infrastruttura legale, fiscale ed amministrativa necessaria per gestire al meglio le donazioni in tempi brevissimi e senza nessun investimento. L’ostacolo principale non è dunque tecnico, ma culturale, perché sono ancora troppo poche le realtà che hanno capito come la promozione del dono possa realmente contribuire al perseguimento della loro missione e ciò malgrado le stesse evidenze empiriche mostrino come, quando ciò avviene, anche l’attività di raccolta fondi diventi più efficace.
Per chi pensa che questa prospettiva meriti un qualche approfondimento, è semplicemente curioso di capire come si possa darle concretezza o, consapevole come sia meglio vivere nell’illusione che morire nel rimpianto, non vuole rinunciare a coltivare una pur flebile speranza, è stato creato un gruppo di confronto su Facebook intitolato “Per il Dono”. Magari possiamo provare a far partire da lì quel dibattito che le parole del pontefice non hanno ancora suscitato.
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