Economia
La prova del nove della nuova impresa sociale
Funzionerà il nuovo veicolo immaginato dal Governo? Leggendo il decreto nella sua stesura definitiva emerge chiaramente che l’attrattività si giocherà intorno a due macro fattori: la partecipazione dei beneficiari alle attività e la partecipazione all'amministrazione territoriale
Ora che il decreto sull’impresa sociale è stato approvato (in allegato il decreto emanato dal Presidente della Repubblica, ma non ancora "vidimato" dalla Gazzetta Ufficiale) possiamo affermare che la dimensione di riforma sembra essere tornata alla ribalta in veste di strategia di sviluppo a fronte di un quadro normativo definito. È emblematico, da questo punto di vista, il commento su VITA di Giuseppe Guerini che oltre ad una generale valutazione positiva della norma esemplifica il futuro prossimo dell’impresa sociale italiana attingendo non solo al proprio bacino di iniziative consolidate, ma alla possibilità di aprire una “radio di comunità”, magari prendendo in gestione una delle 148 frequenze in onde medie che il ministero dello Sviluppo Economico assegnava gratuitamente qualche tempo fa. Forse è solo un esempio, ma che ha il pregio di recuperare il significato profondo dell’essere riforma, ovvero liberare il potenziale di imprenditività per obiettivi di interesse generale, allargando i settori di attività, ma anche riequilibrando la possibilità di utilizzare diversi modelli giuridico organizzativi che possono assumere la qualifica di impresa sociale.
Un immaginario più ampio e variegato in cui una popolazione d’imprese relativamente omogenea per forma societaria, cultura di riferimento, ambito di attività si appresta a diventare una più articolata industry coesa dal punto di vista identitario attraverso un doppio cardine: la dimensione sociale costitutiva della mission d’impresa e l’appartenenza strutturale al Terzo settore. Così definita l’impresa sociale è quindi più libera di potersi esprimere grazie a nuovi gangli – settoriali e organizzativi – pronti ad intercettare un potenziale che in questi dieci anni – risale infatti al 2006 il primo schema normativo in materia – è rimasto purtroppo dormiente, sia nell’ambito del nonprofit – in particolare tra fondazioni, associazioni di promozione sociale e organizzazioni di volontariato – sia nell’ambito delle imprese, tra le quali vanno annoverate non solo quelle di capitali (snc, srl, spa), ma anche le cooperative non sociali che, per ragioni diverse, possono essere interessate a sviluppare con maggior decisione quel “coinvolgimento nella comunità” che rappresenta uno dei loro valori fondanti.
Leggendo il decreto nella sua stesura definitiva emerge chiaramente che l’attrattività dell’impresa sociale si giocherà intorno a due macro fattori che la riforma declina secondo diverse modalità.
- Il primo è un orientamento più deciso verso il lato della domanda: la partecipazione dei beneficiari alle attività, ma anche strumenti di finanziamento come il crowdfunding equity sono segnali piuttosto chiari che l’impresa sociale del prossimo futuro non sarà solo uno strumento di organizzazione del “fattore lavoro” (lato dell’offerta), ma sarà più orientata a coinvolgere beneficiari diretti e indiretti delle proprie attività: utenti e consumatori, spesso con un ruolo attivo nella governance e nei processi produttivi.
- Il secondo fattore è invece legato alla funzione di agenzia assegnata all’impresa sociale, ben esemplificata dalla possibilità di partecipare al governo territoriale e di aprire la propria compagine proprietaria, anche a livello di consiglio di amministrazione e non solo di assemblea dei soci, ad amministrazioni pubbliche, imprese e altri soggetti di terzo settore (in posizione di minoranza). Un ruolo tutt’altro che banale in un contesto storico dove a farla da padrone è la disintermediazione, sia dei rapporti tra produttori e consumatori, sia dei modelli di gestione della funzione pubblica e, più in generale, delle politiche di sviluppo. L’impresa sociale rappresenta, in questo senso, un elemento focale per ricostruire una governance autentica dell’economia e dei territori, distribuita e accessibile, riequilibrando così il riemergere del centralismo nella sfera pubblica e l’esasperazione del carattere estrattivo dell’economia i cui profitti sono sempre più concentrati nelle mani di pochi.
L’impresa sociale riformata si propone infatti come dispositivo per catalizzare l’innovazione sociale che ambisce a diventare impresa e per promuovere nuovi modelli gestione dei beni comuni oggi quanto mai necessari per superare il dualismo riduzionista “stato-mercato”. Sarà interessante, in questo quadro osservare anche il riposizionamento nel breve periodo del “leader di settore” di questa industry nascente ovvero la cooperazione sociale che la riforma riconosce come impresa sociale “de-facto”. In particolare nel suo “terzo tempo” la cooperazione sociale vede ampliato il suo campo d’azione, proprio in quei settori dove la vulnerabilità e la terza società stanno ridisegnando una nuova domanda di beni e servizi: nuove istanze che necessitano di un mutualismo orientato all’impatto sociale, capace di trasformare l’energia dei giovani e le istanze della cittadinanza attiva, in nuove governance a base territoriale capaci di usare l’inclusione come leva dell’innovazione nei territori.
Con la Riforma del Terzo Settore nel nostro Paese l’imprenditorialità orientata all’interesse generale, potrà essere perseguita con forme associative, fondazionali, mutualistiche e for profit, uno spettro di opzioni che posiziona l’Italia come uno dei Paesi più avanzati nel mondo su questi temi. È il compimento di un processo che recupera la dimensione autentica della natura imprenditoriale: quella che riconosce la produzione come fatto sociale e la società come locus dell’innovazione sociale.
*Paolo Venturi è direttore di Aiccon
Flaviano Zanadonai è segretario di Iris Network
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