Non profit

la promessa del fotografo pentito

Raniero Pizzi del «Centro»

di Redazione

È strano ritrovarsi dalla parte opposta della barricata. Come fotografo di un quotidiano locale ho passato quasi tutti gli ultimi 25 anni della mia vita a raccontare per immagini le storie dell’Aquila. È strano. Molti anni fa, in redazione, facevamo discorsi ipotetici su come ci saremmo comportati se fosse accaduta qualche catastrofe. «Non contate su di me» avevo detto.
Ma così perderesti l’occasione di fare qualche scoop, aveva argomentato qualche collega. «In quel caso» e devo ammettere che la possibilità allora appariva remotissima, «potrei essere troppo coinvolto per fare anche le foto». Il 6 aprile non ho avuto il problema di dover scegliere se fotografare la mia città distrutta e i miei concittadini uccisi. La macchina era rimasta sepolta sotto un tramezzo che sono riuscito a sollevare solo dopo qualche ora. Niente foto. A dire il vero avrei anche potuto alzarlo prima, quel tramezzo. Mi sono detto «no, stavolta no, è troppo». Quella notte intorno a me era appena accaduto l’inimmaginabile. Palazzi collassati, i miei vicini uccisi in un numero incredibile. Poi però ho assistito a decine di atti di generosità, dal carabiniere in pigiama che si infilava su per le scale per tirare fuori una vecchietta, ai medici sotto le macerie che rischiavano la propria vita per fare una flebo. Oggi mi pento di non averli fotografati. È come se avessi fatto loro un torto. L’Aquila è la mia città, e credo che io non abbia altra scelta che continuare a fare il mio lavoro.

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