Scuola

La prof influencer: «Caro Instagram, ti lascio»

Insegnante di lettere in un polo tecnico professionale in provincia di Ravenna, divulgatrice e podcaster con un tesoretto da quasi 21mila follower sui social, Eleonora Orsi inizierà il nuovo anno scolastico fuori dagli schermi. Ha scelto di silenziare il suo account Instagram: «Non voglio essere lo scrolling impazzito di prima mattina. Non mi piace, mentre sono con le mie persone, starmene anche in un altrove di cui nessuno sa»

di Daria Capitani

Caro Instagram, ti lascio. Per troppa voglia di vita oltre gli schermi. È la dichiarazione di intenti, alla vigilia di un nuovo anno scolastico di Eleonora Orsi (Nora su Instagram), professoressa, podcaster, narratrice, divulgatrice sui temi dell’insegnamento e di quella relazione unica e imperfetta che in ogni classe si crea tra un docente e i suoi studenti. L’accento inconfondibile di chi vive in Emilia Romagna, una cattedra in un polo tecnico professionale in provincia di Ravenna e un tesoretto da quasi 21mila follower sui social al quale ha messo un punto e a capo.

21mila follower non sono un milione, ma tutti insieme formano una folla grande all’incirca pari a quella che riempie uno stadio. Influencer è una definizione in cui si riconosce?

Io mi definisco prof, podcaster e narratrice. Il mio essere prof lo vedo come qualcosa di intimamente fuso con la mia personalità: da un lato sono una persona a cui piace moltissimo coltivare interessi esterni alla scuola, mi piace “staccare” e dedicarmi a tutt’altro. Tuttavia, con la scuola, vivo una relazione che percepisco soprattutto come una relazione affettiva: non si interrompe mai.

Narratrice perché raccontare è la cosa che amo di più in assoluto e credo sia anche tra le attività che mi riescono meglio. Anni fa avrei forse detto “aspirante scrittrice”, ma con il tempo ho scoperto altre dimensioni del narrare che mi hanno catturata, come il mondo del podcast e anche quello dei social.

Con la scuola vivo una relazione che percepisco soprattutto come una relazione affettiva: non si interrompe mai. Non mi sento invece un’influencer. È una definizione che non amo perché rimanda a un flusso di informazioni a senso unico

Non mi sento, invece, un’influencer. È una definizione che non amo perché rimanda a un flusso di informazioni a senso unico: l’influencer per definizione esercita un’influenza, cercando di modellare la libertà altrui e promuovendo qualcosa, senza uno scambio reciproco. In un’occasione ho anche accettato un vero lavoro da influencer, promuovendo un’iniziativa commerciale attraverso la mia pagina Instagram: per quanto si trattasse di un prodotto etico, in linea con i miei valori e completamente gratuito per i destinatari, è stata un’esperienza sofferta.

La professoressa, narratrice e podcaster Eleonora Orsi

Prof prima di tutto, quindi. Che cosa l’ha portata a scegliere questo mestiere?

L’amore per l’insegnamento è un’eredità che mi arriva dalla mia mamma, che in casa, sin da quando ero bambina, non ha mai perso occasione per parlare della scuola in modo costruttivo e direi quasi sognante, entusiasta. Mi ha sempre comunicato stima nei confronti degli insegnanti e ne ha sempre fatto emergere una visione positiva. Un tassello ulteriore è stato aggiunto dal mio professore di letteratura di quinta liceo. Ascoltando le sue lezioni, che per me erano di grande ispirazione, mi accorgevo che spontaneamente immaginavo di essere al suo posto. Era quasi come se la letteratura e la poesia mi affascinassero, sì, ma restassero un po’ in secondo piano rispetto al comunicare la letteratura e la poesia.

Alla fine dello scorso anno scolastico, ha scritto in un post il motivo per cui non farebbe mai un altro lavoro. «Sto iniziando a pensare che sia questo il senso del nostro mestiere: illuderci di dover volare, sentirci scaraventare a terra ma poi accorgerci, doloranti, che ci sono cunicoli nascosti. E non portano più in basso, ma portano più a fondo». Che cosa intende?

Quando l’ho scritto pensavo a tutti quei casi, frequenti, di apparente insuccesso: magari un insegnante dedica anima e corpo a inventare strategie, progettare attività e andare incontro all’umanità peculiare degli studenti che incontra, poi però può capitare che la lezione sia un flop. A volte servono mesi per stabilire, in classe, un vero clima di lavoro, e con questo non intendo un regime di ubbidienza fondato sul controllo, ma penso a un clima costruttivo di fiducia reciproca, utile per crescere insieme. Nel mezzo, tra il primo tentativo e la riuscita, ci sono tante cadute: ci si rende conto, con delle prese di coscienza che sono come schiaffi in faccia, che magari gli studenti non apprezzano quello che ci aspetteremmo, che oltre le mura scolastiche hanno vite complicatissime o che non hanno il minimo rispetto per il ruolo che rappresentiamo. Quelli sono i tunnel di cui parlavo: se trovi il coraggio di percorrerli, senza scandalizzarti, stando di fronte alla realtà per quello che è, ti accorgi che non possono esistere risposte semplici o scontate a situazioni complesse. Cadere in basso significherebbe gettare la spugna o disprezzare gli studenti o la scuola; andare a fondo, invece, significa mettersi in discussione e cambiare strada, pur mantenendo la rotta.

Sto iniziando a pensare che sia questo il senso del nostro mestiere: illuderci di dover volare, sentirci scaraventare a terra per poi accorgerci, doloranti, che ci sono cunicoli nascosti. E non portano più in basso, ma portano più a fondo

Eleonora Orsi

Perché ha scelto Instagram come mezzo per raccontare la scuola?

Instagram, per me, è stato l’habitat perfetto ma anche la trappola perfetta. Da sempre ho il desiderio di scrivere ed essere letta e i social danno questa possibilità a chiunque. All’inizio, quando avevo un profilo piccolissimo, scrivevo delle riflessioni che mi parevano apprezzabili, ma non raggiungevano nessuno. Poi, a inizio 2022, durante una lunga quarantena per via del Covid, casualmente ho scritto un post sulla scuola che era sia utile che motivazionale e l’algoritmo lo ha premiato. A quel punto ho capito che, se volevo farmi “ascoltare” in un “luogo” come quello, dovevo offrire ai miei lettori qualcosa che potesse servire nella quotidianità a scuola. Piano piano sono riuscita a scrivere contenuti sempre più personali e sempre meno formali, perché con il tempo si era creata una bella comunità fatta di scambio e di relazioni vere, seppur a distanza. Non immaginavo che avrei raggiunto quel numero di follower, è stato molto gratificante: mentirei se dicessi il contrario. Tirando le somme, Instagram mi ha dato modo di intessere nuovi rapporti e di trovare anime affini con cui condividere le mie parole e i miei pensieri. Mi ha anche regalato momenti molto divertenti, stimoli, piccole sfide e arricchimento professionale. Cosa mi ha tolto? Senza dubbio, tempo ed energie. Ma forse anche la concentrazione necessaria a scrivere veramente qualcosa di valore.

Il 23 agosto ha deciso di silenziare il suo account Instagram, senza giudizio («Non sei tu che non mi piaci: sono io che non mi piaccio quando sto con te»), ma con un’intenzione molto chiara che ha a che fare con la lentezza e con l’ascolto.

Vero, nella mia decisione non c’è un giudizio: per me Instagram è uno strumento potente, ricchissimo di contenuti validi e interessanti. Ciò che mi spaventa, che non amo e che cerco di combattere è l’onnipresenza dei dispositivi nelle nostre vite. Lo smartphone, il web e i social sono progettati in maniera sofisticata proprio per catturarci e non lasciarci più andare via: saremmo ingenui se li pensassimo come strumenti neutri. Fior fiore di esperti della psiche umana hanno lavorato per renderli irresistibili. Io, personalmente, non ho trovato un modo sostenibile o equilibrato per utilizzare il telefono e, in particolare, Instagram, che per me ne rappresenta il risvolto più appetibile: mi sono accorta che, per me, l’unico modo per non eccedere è privarmene completamente o quasi. Le ragioni sono profonde: senza le intromissioni continue del telefono si è più lucidi, più calmi, più produttivi ma in un modo non frenetico, si riescono a sperimentare la noia o la contemplazione, si arriva a pensieri più complessi. Inoltre, ci si dedica completamente al momento presente e alle persone in carne e ossa con cui si condividono gli spazi, senza vivere contemporaneamente in un altrove individualista. A livello estremamente pratico, sa che cosa mi disturba moltissimo dello smartphone? Il fatto di non avere mai le mani libere. Forse sembrerà una sciocchezza, ma avere le mani libere ci dà modo di agire in maniera molto più consapevole, sia nei confronti degli altri che di noi stessi e dell’ambiente circostante.

Si può parlare di distonia tra virtuale e reale?

Assolutamente sì, ma è una distonia fisiologica. È normale che esista. Dovremmo sempre ricordarci che esiste uno scarto tra ciò che è e ciò che viene mostrato online. Io ho cercato di essere presente online in un modo estremamente autentico, con pochissimi filtri, aprendomi molto e raccontando la semplicità di cose vere e anche personali, senza troppi calcoli: questo diventa molto difficile, quando un profilo cresce. Per far sì che la mia pagina restasse sostenibile, avrei dovuto elaborare un piano editoriale, magari programmare in anticipo le uscite dei contenuti, scegliere di selezionare i messaggi a cui rispondere. Ma io non so usare i social così: per me Instagram era un bel gioco spontaneo e, se la spontaneità non è possibile, allora la cosa non mi interessa. Ci sono persone la cui presenza su Instagram ha molto senso, in certi casi è anche inevitabile. Io, per la situazione che ho e per il lavoro che faccio, posso permettermi di non scendere a compromessi. Aggiungo anche che, quando un profilo comincia ad avere un alto numero di seguaci, gli utenti (non tutti, certo) tendono a idealizzarlo e a depersonalizzarlo: cominciavo a ricevere commenti sgarbati o a deludere le aspettative di chi avrebbe voluto che trattassi necessariamente certi temi. Ti senti una persona normalissima e cominci a percepire che per molti utenti non lo sei.

La sua presa di consapevolezza risuona nel mondo adulto: è una storia singola che forse può dirci qualcosa sul messaggio che a parole diamo agli adolescenti sul digitale e su come lo rinneghiamo nelle azioni.

Sono d’accordo. Quando ho preso questa decisione ho pensato molto anche all’esempio che desidero dare a mio figlio e ai miei studenti: mi sono chiesta che tipo di persona voglio mostrare loro. Ma attenzione: un esempio di adulto positivo non è necessariamente rappresentato dall’adulto che non usa i social. Un esempio di adulto positivo consiste nell’adulto che agisce responsabilmente e in modo sostenibile per il proprio benessere psicofisico e per il bene delle proprie relazioni: per me questo coincide, in questo momento storico della mia vita, con l’allontanamento da Instagram. Altri insegnanti, educatori o genitori potrebbero invece scegliere di condividere con i ragazzi strategie virtuose di utilizzo dello smartphone: l’importante è essere esempi sinceri. Non possiamo fare ramanzine ai giovani e poi accettare passivamente di essere schiavi, noi stessi, della tecnologia. Poiché alcuni miei studenti mi seguivano con piacere su Instagram (e la cosa rappresentava anche un bel punto di contatto tra noi) al rientro a scuola parlerò sicuramente della svolta che ho vissuto quest’estate.

Sa che cosa mi disturba dello smartphone? Il fatto di non avere mai le mani libere. Forse sembrerà una sciocchezza, ma avere le mani libere ci dà modo di agire in maniera molto più consapevole

Eleonora Orsi

Secondo lei, cambierà qualcosa in classe?

Sono certa che cambieranno la qualità delle mie lezioni e la mia presenza in classe. Confido in un minore stress e in una maggiore concentrazione. La sfida più bella, però, sarà continuare a creare relazioni con i colleghi, a raccontare la scuola e a condividere buone pratiche fuori dal mondo virtuale, nella quotidianità, nelle vere aule scolastiche e standocene tutti faccia a faccia: credo che avrò energie nuove da investire nella relazione educativa in presenza, con ogni singolo collega e soprattutto con ogni singolo ragazzo o ragazza che incontrerò.

Come inizia questo anno scolastico? Cosa aggiunge nello zaino e di cosa lo alleggerisce?

Quest’anno voglio lavorare su me stessa per trasformare in azione tanti bei pensieri che troppo spesso sono rimasti tali. Ho intenzione anche di studiare tanto e di applicarmi in classe privilegiando la qualità rispetto alla quantità. Continuerò a dedicare molta attenzione al versante umano e a coltivare la collaborazione tra colleghi, che è fondamentale e nel mio istituto funziona molto bene.

La scuola ha il dovere di essere una casa sicura e accogliente per tutti oltre che luogo di istruzione e formazione: ancora troppi vivono condizioni di disagio e purtroppo non trovano nella scuola risorse materiali e umane sufficienti

In generale, secondo lei, quali sono le sfide con cui dovrà fare i conti la scuola italiana quest’anno?

La scuola ha il dovere di rappresentare, sempre di più, una casa sicura e accogliente per tutti, nonché un luogo di educazione oltre che di istruzione e formazione: ancora troppi studenti e studentesse vivono condizioni di grave disagio e purtroppo non trovano nella scuola risorse materiali e umane sufficienti a farli diventare davvero grandi, nel senso più ampio e bello del termine. Servono investimenti seri per garantire il più possibile ambienti accoglienti, continuità educativa e didattica e personale formato.

L’altra grande sfida a cui andiamo incontro, ne sono convinta, è riuscire a valorizzare la cultura e la complessità in un mondo che, sempre di più, punta alla semplificazione, al profitto e alla mediocrità. L’intelligenza artificiale e il web sembrano dimostrarci che il sapere non serva più. La scuola non può più puntare solamente sull’utilità del sapere: dovremmo puntare sulla bellezza del sapere e sulla sua importanza nella costruzione della persona. Poco importa se le macchine sanno svolgere compiti al posto nostro: il gusto della scoperta deve rimanere nostro.

L’immagine in apertura è di James Kovin su Unsplash.

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