Non profit

La privatizzazione in un bicchier d’acqua

Pubblica o privata? Bene Comune o da servizio da mettere sul mercato? E per il consumatore utente, qual è la vera posta in gioco?

di Luca Zanfei

L’ultima novità è contenuta nella manovra economica approvata dal governo nello scorso agosto: l’articolo 23 bis apre al regime competitivo delle gare tra società di capitali anche nella gestione del servizio idrico. Per i movimenti da anni impegnati nella battaglia per l’acqua “bene pubblico” un passo avanti sul fronte della privatizzazione dell’oro blu, in una logica di business. Una battaglia che va avanti da anni, tra progetti di riforma mai decollati e una legge di iniziativa popolare arenatasi in commissione Ambiente. In mezzo il consumatore, che paga tariffe in costante crescita (seppure ancora inferiori alla media europea), ma con il corrispettivo di un tasso di inefficienza e di spreco inaccettabili: il 25-30% dell’acqua dei nostri acquedotti se ne va in perdite.





Come da prassi, i provvedimenti impopolari si prendono in estate. Così Giulio Tremonti ha scelto il mese di agosto per dare una definitiva svolta al processo di privatizzazione dell’acqua. D’ora in poi, come tutti i servizi pubblici, anche quello idrico dovrà sottostare al regime competitivo delle gare tra società di capitali. L’articolo 23 bis della manovra finanziaria triennale ha messo tutti d’accordo, togliendo persino d’impaccio la sinistra più liberista che infatti ha votato in blocco. Con tanti saluti ai movimenti per l’acqua che, alla scadenza della moratoria sull’affidamento ai privati concessa del governo Prodi, pensavano di riaprire il dialogo sulla petizione popolare per la “ri-pubblicizzazione dell’acqua” ferma in commissione Ambiente.
Ma allo stato dei fatti si può parlare di vera rivoluzione? Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Nel 1994 la Legge Galli riorganizza il sistema di gestione idrico e riunisce i Comuni in Ato (Ambiti territoriali ottimali), con il semplice obiettivo di razionalizzare un settore infestato da una miriade di operatori e da un alto grado di inefficienza gestionale e infrastrutturale. Con le normative vigenti gli Ato possono decidere se gestire autonomamente il servizio, tramite società a capitale totalmente pubblico (in house), appaltarlo con gara europea a privati o, ancora, affidarlo a società miste spesso a maggioranza pubblica. L’unica condizione vincolante è la gestione in modalità privatistica, con meccanismo basato su tariffa -investimento – miglioramento del servizio. Oggi i casi di aggiudicazione del servizio con gara si contano sulle dita di una mano e quasi la metà del servizio è stato affidato in house (a capitale interamente pubblico) o a società miste; e solo il 13% ha gestione interamente privata.
Il risultato, secondo i dati di Nus Consulting Group, è che pur rimanendo tra le più basse d’Europa, le tariffe sono cresciute del 35% ma l’efficienza infrastrutturale è rimasta la stessa, con oltre il 25-30% di perdita degli acquedotti e la quasi totale inefficienza dei depuratori. Ma non basta. Secondo il Blue Book 2008 di Utilitatis (istituto di ricerca di FederUtilitity), con questo trend di sviluppo e miglioramento infrastrutturale, le tariffe sono destinate a crescere per i prossimi 12 anni, raggiungendo, nel 2020, quota 1,54 euro al metro cubo (oggi è 1,20 euro). La soluzione immediata per il governo è allora quella di accelerare la liberalizzazione del mercato, favorendo l’entrata di grandi gruppi attivi anche in altri settori, e limitare i casi di affidamento diversi dall’“in house”. Con l’eccezione di quelli già in atto, che comunque decadranno nel 2010, anno in cui si rinegozierà l’affidamento del servizio. Tradotto: lasciare per ora il sistema così com’è. Anzi, «i soggetti che vinceranno l’affidamento dovranno sottostare al patto di stabilità, con tutti i problemi di vincoli di spesa e quindi di investimento», spiega Paolo Carsetti, della segreteria operativa del Forum italiano dei movimenti per l’acqua; «questo vuol dire che gli operatori continueranno ad alzare le tariffe o dovranno aumentare la richiesta di mutui alle banche, che già oggi chiedono tassi altissimi regolarmente scaricati sull’utenza».

Costi e ricavi

Così al momento il vero problema sembra proprio quello delle risorse. Secondo le stime, per migliorare il sistema degli acquedotti e dei depuratori ci vorranno oltre 60 miliardi in trent’anni, circa 2,5 miliardi all’anno più i costi di manutenzione. Oggi il pubblico potrebbe garantirne non più del 10%. «Il problema dunque non è se è meglio pubblico o privato», spiega Antonio Massarutto, direttore di ricerca presso lo Iefe, l’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’università Bocconi. «Essendo un monopolio naturale, il settore idrico non trarrà grande beneficio dal meccanismo delle gare, ma l’esperienza ci insegna che una gestione totalmente pubblica non assicura affatto qualità a minor prezzo. Qui semmai la questione è gestire un servizio tipicamente industriale in modo privatistico e professionale, ricercando l’equilibrio tra costi e ricavi. Siccome questo è impossibile affidandosi alla sola fiscalità generale, la soluzione è far pagare un servizio, che finora è stato praticamente gratis, o attrarre capitali dall’esterno». «Ma per ora nessun operatore finanziario è attirato da un sistema senza regole e assolutamente instabile come quello italiano», conclude Massarutto.
I controlli, dunque. Nel nostro Paese gli organi di vigilanza, come il Coviri, non hanno molta voce in capitolo e si limitano a dare linee di indirizzo assolutamente inascoltate. «Come si fa a pensare al mercato senza un’authority degna di questo nome?», dice Benedetto Tuci, del Movimento Consumatori. «Finché si affideranno le rilevazioni sulla qualità del servizio alle stesse aziende e si daranno gli strumenti di controllo agli Ato, non si potrà mai sperare in un sistema efficiente».
Allo stato attuale, quindi, non è solo l’allargamento del mercato la soluzione. Così ritorna in auge la petizione popolare proposta dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua. Più di 400mila firme raccolte per fare un passo indietro e rispolverare la gestione pubblica. Con un occhio alle risorse. «Nella proposta pensiamo alla riduzione del 5% della spesa militare e al reperimento di altre risorse dall’evasione fiscale», spiega Carsetti. «Inoltre fino a 50 litri di consumo al giorno, minimo garantito dall’Oms, il costo del servizio sarà pari a zero. Poi salirà gradualmente fino ai 300 litri, soglia oltre la quale si può parlare di spreco». Un cosa è certa, però: «Senza una cultura del risparmio idrico, nessun sistema può funzionare», conclude. «E allora non ci sono investimenti che tengono».


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