“Velati”, cioè chi fa dell’identità sessuale un tabù. Una comunità che conta 3 milioni di persone. Che sempre di più decide di fare fronte comune. Così sono nati gruppi di sostegno ma anche di assistenza ai malati di Aids. E il gay pride importa davvero a pochi
D’accordo, Stonewall non fu certo fatta dai gay in cravatta. Eppure, non c’è solo Platinette. A quarant’anni dalla rivolta newyorkese che diede inizio al movimento di liberazione omosessuale, «finché non si capisce che il gay è anche il compagno di banco, e non solo la checca isterica in tv, non si rompe lo schema del pregiudizio». Affondo che arriva dall’ex direttore della rivista Pride, Giovanni Dall’Orto: «Ma quale orgoglio gay? Il sentimento più diffuso è ancora la vergogna. Quello che filtra del mondo omosessuale è un enorme mercato del sesso, per il resto c’è il deserto».
Business e solidarietà
Al di là dei numeri del Gay Pride (oggi ci partecipano decine di migliaia di persone), che ha dato indubbia visibilità al movimento, «la politica non ci prenderà sul serio finché non ci vedrà come una forza sociale radicata sul territorio». Voce autorevole del movimento, Aurelio Mancuso è presidente dell’Arcigay, la principale organizzazione nazionale per la difesa dei diritti delle persone omosessuali in Italia, che oggi conta 110mila soci e 45 comitati provinciali. Molti, ma pochi se confrontati all’enorme popolo dei “velati”, ovvero di chi della propria identità fa ancor oggi un tabù. Si stima che la comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) comprenda tre milioni di persone, un numero al ribasso per molte delle associazioni di settore.
Attorno al movimento ruota un business commerciale non indifferente. Sono dai 200 ai 400mila i frequentatori del circuito ludico gay-friendly, quasi 70 i locali affiliati all’Arcigay. Ma attenzione, associarsi a un circolo di cultura omosessuale non serve solo a rimorchiare. L’Arcigay è attiva da anni con i telefoni amici e i gruppi d’accoglienza sul territorio, con i corsi nelle scuole contro il bullismo omofobico, con le campagne per la salute e per i diritti dei gay nel mondo. Altrettanto, non è solo provocazione il Circolo Mario Mieli di Roma, ideatore del Muccassassina e organizzatore del Pride di Roma. Tra i più vecchi circoli della penisola, forte di 500 soci attivisti (la tessera non serve per entrare nei locali) e un trend di 50 nuovi iscritti l’anno, è un vero riferimento per la cultura gay della capitale. Storicamente impegnato nell’assistenza domiciliare per i malati di Aids, attività che svolge in collaborazione con il Comune di Roma, opera anche con un’unità di strada finanziata dalla Regione.
Un universo, quello dell’associazionismo gay, in pieno fermento (a breve l’Arcigay intende aderire al Forum del terzo settore): «Le nuove generazioni hanno una grande voglia di impegno», continua Mancuso. «I nuovi comitati, soprattutto al Sud, sono pieni di giovani». Giovani che magari hanno fatto un Erasmus all’estero, e che una volta rimpatriati si scontrano con la situazione italiana.
Cos’è la destra, cos’è la sinistra
Direbbe Giorgio Gaber, l’omosessualità in Italia è decisamente di sinistra. Eppure, secondo un sondaggio del sito internet www.gay.it, tra i più visitati dalla comunità omosessuale, un gay su tre non vota a sinistra. Tant’è che da oltre dieci anni Gaylib è il riferimento nazionale per i gay liberali di centrodestra. Professionisti, imprenditori, giornalisti, perlopiù in coppia, moderati in politica e nella vita. «Su tre milioni di omosessuali non siamo tutti Solange», dice il presidente Enrico Oliari. «La nostra buona stella? Gianfranco Fini». «E poi ultimamente», continua Oliari, «segnali di apertura arrivano pure dal mondo cattolico». Se non altro perché i gay cattolici sono una realtà. Sul territorio nazionale si contano 23 gruppi cattolici, tre gruppi evangelici cristiani e alcuni di varia spiritualità cristiana. Si arriva così a 27 gruppi attivi ufficialmente in Italia, per un totale di un migliaio di associati.
Il lesbismo visibile
Arcilesbica è il maggiore riferimento per le donne omosessuali (5mila iscritte) che si vogliono auto-organizzare. Il perché è semplice: «Abbiamo priorità diverse», spiega Cristina Gramolini vicepresidente dell’associazione, «la violenza contro le donne, ad esempio, non è una priorità dei gay, come l’Aids non lo è per le lesbiche». Obiettivo dell’associazione, nata nel 1996, è rendere “visibile” il lesbismo. In Rete c’è un esercito che si muove: Listalesbica.it, uno dei maggiori siti per donne omosessuali, conta mille iscritte e fino a 100mila contatti mensili. C’è poi chi ha scelto per sé il “separatismo”. Femministe di ritorno? «Niente paura», rassicura Manuela Fazia, presidente uscente dell’associazione separatista Pianeta Viola. «Il movimento lesbico ha una consapevolezza recente, abbiamo bisogno di conoscerci meglio. Io stessa sono molto cresciuta nel gruppo, come donna e come lesbica». Una quindicina di militanti nel cuore di Brescia e un altro centinaio di donne che partecipano alle iniziative. Insegnanti, architette, veterinarie, psicologhe che si ritrovano per parlare di loro, di donne. Un cammino nella propria identità, dalla studentessa alla prima cotta alla mamma trasferitasi al Nord che è finalmente riuscita a godere in libertà della sua nuova vita.
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