Cultura

La preghiera è finita in un ghetto

Fuori dagli schemi. Il punto di vista di una giovane musulmana di seconda generzione

di Redazione

La richiesta di avere un luogo dove pregare è legittima e comprensibile, soprattutto se si tengono a mente le condizioni in cui molti credenti si trovano a dover pregare. Entrando o passando vicino ad alcune sale di preghiera, dietro cortili e garage, se così si possono chiamare, si ha l’impressione di essere in una realtà parallela in cui lo stato di conservazione non è dei migliori e in termini di cura apparirebbero come ultimi luoghi appropriati in cui poter pregare. Le richieste vengono frequentemente negate e aspramente respinte nonostante la legge le preveda. Allora dall’interno e dall’esterno sorge una domanda spontanea che verte sul perché di questi rifiuti.
Da credente e non appartenente a nessuna comunità o associazione, posso capire la situazione, ma fino a un certo punto. Molti sanno che oltre alla diffidenza nel concedere questi spazi, c’è un problema di rappresentanza delle comunità islamiche.
Nella dialettica comune o si percepisce vittimismo e passivismo oppure si assiste a interventi in cui chi vuole poi dirigere questi spazi di preghiera dimostra di avere una scarsa conoscenza della lingua italiana, segno di non integrazione e anticipo di una pessima comunicazione con l’esterno.
Un altro punto che gioca a sfavore e che accresce le preoccupazioni da parte di coloro che respingono queste richieste è la pretesa di avere questi spazi. È vero che è un diritto quello di poter praticare la propria fede e sentirla con serenità, ma bisogna anche rendersi conto che i tempi devono essere maturi, rivolgere attenzione a problematiche più delicate, aspettarsi l’approvazione di una richiesta ma non richiederla come fosse una pretesa.
Fare e farsi critiche dall’interno e impegnarsi affinché questo percorso di maturazione emerga all’esterno è uno dei primi passi. Poi c’è bisogno di persone competenti nate e cresciute in Europa, che non parlino un linguaggio ambiguo, che abbiano il coraggio di prendere distanze e condannare fatti che vanno condannati. Che non abbiano paura di dimostrare che le sale di preghiera non sono ghetti che impediscono di far parte della società a tutti gli effetti, che presentino questi luoghi come spazi sempre aperti a tutti, sia in occasioni speciali che in occasioni meno speciali.
Se le percezioni esterne sono di biasimo e dissenso significa che la colpa è bidirezionale. Solo nell’opera di apertura a nuovi e più ampi orizzonti, mettendo in scena coloro che già stanno lavorando su questa strada – perché ci sono ma non se ne parla e sono giovani competenti che devono farsi avanti per prendere la parola e far sentire la loro voce -, la collaborazione tra le due parti sarà proficua, con un lavoro che coinvolge tutti, perché riguarda tutti, come protagonisti.

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