Welfare

La povertà non ci indigna, ci indignano i poveri

Un interessante editoriale del Guardian sul "colpo di Stato psichico" provocato dal pensiero capitalista

di Gabriella Meroni

Pietà l’è morta, cantavano gli alpini. Più o meno il concetto che sta dietro un bell’editoriale pubblicato oggi dal Guardian dal titolo “non ci fa schifo la povertà, ci fanno schifo i poveri”. L’autrice, Suzanne Moore, rimarca un cambiamento di mentalità che sta investendo la società capitalista, nella quale sempre più persone provano fastidio, se non un vero e proprio ribrezzo, per i poveri (il caso tweet di Roberto Bolle docet, nonostante le precisazioni del ballerino), e invece di compatirne la condizione li emarginano, pensando che i qualche modo se la sono meritata.

Tossicodipendenti, nomadi, poveri <<con i piedi piagati, la pelle screpolata e i denti marci>> ci fanno letteralmente venire i brividi, scrive Moore. <<Pensiamo che il tossico che ci chiede moneta davanti al supermercato è l’autore della propria sfortuna. La sua povertà se l’è cercata (…) Tanti pensano: i poveri non esistono, hanno tutti la televisione! Questa lenta erosione della pietà è il risultato di un clima economico che porta a pensare che tutti, tossici o meno, sono personalmente respionsabili dei propri insuccessi, delle proprie vittorie mancate. I poveri non sono più persone come noi, ma con meno soldi: sono diventati una specie a parte. La loro povertà è lo specchio del loro fallimento. Si sono lasciati andare. Un giudizio che non si applica solo ai singoli, ma anche alle nazioni: prendiamo i greci. Dove pensavano di andare con quel sistema pensionistico e quei sussidi? Si credevano come noi (inglesi, ndt)? Eppure adesso un’élite di ricchi politici gli ordina di risorgere dalle ceneri, come la fenice. Forse possono far crescere i soldi sugli alberi?>>.

<<Intanto negli Stati Uniti – come hanno mostrato gli ultimi dati demografici – c’è gente che vive nelle tende, o in metropolitana, col freddo che c’è. Sono i poveri, quelli con i piedi piagati, la pelle screpolata e i denti marci, il lato B del sogno americano>>. Ma Suzanne Moore fa altri esempi. <<Pochi giorni fa ascoltavo in radio un giovane depresso che si lamentava perché nonostante la laurea con lode è da tre anni senza lavoro. Le telefonate degli ascoltatori erano di questo tenore: è un lazzarone, si vede che il lavoro non lo cerca. Certo, tentare di mettersi nei suoi panni non gli darà un posto di lavoro, ma condannarlo senza appello produce come unico risultato un inasprimento degli animi. Abbiamo paura dei disperati, non li vogliamo tra i piedi. A me questo disturba>>.

<<Il nostro disgusto nei confronti dei poveri è bilanciato solo dalla tenerezza che proviamo per i bambini. Loro sono puri, innocenti. Con loro siamo benevoli, caritatevoli. Non abbastanza però da prendere sul serio il problema della malnutrizione, che secondo Save the children colpisce un bambino su quattro nei paesi poveri. Be’, pensiamo, essere malnutriti mica vuol dire morire di fame, esattamente come non può essere povero uno che ha il telefonino. Non mangiano bene come noi, ma in fondo in quei paesi è una cosa normale, no?>>.

<<L’idea che alla fine i poveri devono cavarserla da soli non ha senso in una società che ha ridotto la mobilità sociale a zero. E’ una favola senza prove, e oltretutto ce l’hanno raccontata per anni i ricchi, che spesso hanno usato questa scusa per disinteressati di quelli che avevano di meno. Uscire dalla povertà tocca ai poveri, pensiamo oggi, che siano greci, alluvionati, disabili o giovani disoccupati. Tocca a loro. Noi potremmo fargli un’offerta, un aiutino, spiegargli che devono diventare imprenditori di loro stessi. L’economia della compassione è morta, siamo tutti individualisti. Basta coi cattivi che devono diventare buoni. Siamo tutti cattivi, punto. Non è vero che non ci sono soldi, la povertà non è segno del fallimento di una società ma una colpa individuale. Ecco il colpo di stato psichico del pensiero neo-liberale: invece di essere disgustati dalla miseria, siamo disgustati dai poveri stessi. L’industria del disgusto è in crescita. E noi, che abbiamo da offrire ai miseri solo questo fallimento morale, ci diciamo che siamo molto meglio di loro>>.

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