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La povertà in Europa, rapporto delle Caritas europee

Primo "Rapporto sulla povertà in Europa", studio statistico e descrittivo della condizione sociale nel continente grazie ai contributi di 43 Caritas nazionali.

di Redazione

E? stato presentato del dossier curato da Caritas Europa, che ha condotto uno studio statistico e descrittivo della condizione sociale nel continente grazie ai contributi di 43 Caritas nazionali. Dal primo “Rapporto sulla povertà in Europa”, emerge una fotografia della società e delle politiche sociali del vecchio continente, alle prese con una distribuzione sbilanciata delle risorse, con una forte discriminazione femminile in ambito lavorativo, con tassi ancora alti di mortalità dei neonati e investimenti oscillanti in ambito formativo. Considerando come soglia della povertà la metà del reddito medio, tra gli Stati membri dell’Unione la percentuale più elevata della popolazione povera tra il 1987 e il 1997 si registra in Italia (14,2%) e nel Regno Unito (13,4%). Il nostro Paese e la Gran Bretagna totalizzano una percentuale più alta di poveri rispetto anche a paesi come Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Dai risultati emersi – che denunciano la carenza delle politiche sociali nella protezione delle fasce più deboli della popolazione – si delineano alcune priorità, secondo Denis Viénot, presidente di Caritas Europa: “l’accesso al lavoro e la lotta contro la discriminazione, l’aiuto economico per l’istruzione dei bambini in famiglie disagiate e lo sviluppo di scambi economici e di solidarietà tra Europa dell’est e dell’ovest”. Le cause della povertà in Europa ? secondo il rapporto – sono da ricercare nelle ripercussioni geopolitiche del crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Est, che ha provocato l’emergere di oltre 150 milioni di “nuovi poveri”. Inoltre la “recrudescenza dei conflitti nel mondo – compresa l’Europa orientale” ha provocato l’aumento massiccio del numero di rifugiati, sfollati, richiedenti asilo e immigrati. A questo si aggiunge l’accelerazione del processo di globalizzazione, “occasione per una più grande ingiustizia”, denuncia il Rapporto. Infatti si sono globalizzati anche “la tratta di esseri umani, il traffico di stupefacenti e il terrorismo internazionale”. Il Rapporto si conclude con alcune proposte politiche: attività mirate all’impiego (per lavori di lungo periodo); potenziare istruzione e formazione, insieme alla protezione sociale; aumentare gli aiuti per le famiglie monoparentali e numerose (con oltre 3 figli a carico), per gli anziani (garantendo pensioni adeguate), i richiedenti asilo, gli immigrati e le vittime della tratta (ad esempio snellendo le procedure). Inoltre occorre implementare le relazioni tra l’Unione europea e i Paesi dell’Europa centrale e orientale, i Paesi candidati all’Unione e i non candidati. Cominciando da una “solidarietà finanziaria” significativa fra tutti gli Stati, che favorisca lo sviluppo economico dei Paesi in difficoltà. Emerge come elemento importante anche la distribuzione non equa delle risorse. Nel Regno Unito il 20% dei ricchi possiede il 43% delle risorse disponibili e il 20% dei poveri usufruisce soltanto del 6,6%: dati che superano quelli della Bielorussia, della Croazia e dell’Ucraina. In Turchia, Paese candidato all’Unione, il 20% del ceto abbiente ha a disposizione quasi la metà della ricchezza (47,7%), mentre al 20% dei poveri resta il 5,8%. Fra gli Stati non candidati, la disuguaglianza più evidente si verifica nella Federazione russa, dove il 20% dei ricchi ha il 53,7% delle risorse: a un quinto dei più poveri ne resta appena il 4,4%. La “femminilizzazione” della povertà. In Europa cresce l’emarginazione e la discriminazione delle donne: le stime riferite all’Unione, nel ’99, evidenziano che il salario femminile è il 51,8% di uno stipendio maschile; lo scarto più significativo si registra a Malta (27,7%), mentre negli Stati esterni all’UE la Lituania emerge per il 67,11%. In Turchia, invece, la paga delle donne scende al 44,8% di quella degli uomini. Nei Paesi Ue le donne guadagnano il 51,8% degli stipendi degli uomini. In Italia le retribuzioni femminili arrivano al 43% del reddito medio degli uomini. Disoccupati e “working poor”. La disoccupazione, soprattutto quella di lungo periodo (oltre 6 mesi), rappresenta una delle principali cause della povertà, collegata all’analfabetismo o a una scarsa formazione e acquisizione di competenze, ritenute “insufficienti per rispondere alle esigenze del mondo tecnologico attuale, in continuo cambiamento”. I disoccupati – soprattutto giovani, persone di mezza età e disabili, fisici o psichici – si trovano in tutta Europa: in Austria, ad esempio, il 32% dei disoccupati di lungo periodo vive sotto la minaccia della povertà. Nel 2000 il tasso di disoccupazione in Finlandia è aumentato del 9,8%: un dato che comprende il 21,4% dei giovani fra i 15 e i 24 anni. La Polonia, nel 2001, contava circa 3 milioni di disoccupati. Poi ci sono i lavoratori poveri (“working poor”) a motivo dei salari esigui; fra loro anche medici e insegnanti. Nella Federazione russa e in Ucraina i bassi stipendi (circa 30 euro al mese), oltre ai ritardi nei pagamenti, provocano esodi di massa; per la scarsa retribuzione solo a Istanbul, in Turchia, oltre un milione di persone soffrivano di denutrizione lo scorso anno. Questa situazione incentiva, come “effetti collaterali”, conseguenze sociali negative: dalla tossicodipendenza in crescita fra i giovani norvegesi e slovacchi, all’alcolismo, che in Polonia coinvolge circa un milione di persone. Famiglie monoparentali o numerose. In 14 Paesi (Austria, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Andorre, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Armenia e Bielorussia) è particolarmente critica la situazione delle famiglie monoparentali soprattutto al femminile. Queste, insieme agli anziani, rappresentano le categorie principali di persone che vivono sotto la soglia della povertà. Si trovano nelle stesse difficoltà le famiglie con due o tre figli in alcuni Stati. La mortalità infantile. È più elevata in Italia, insieme a Belgio, Grecia, Irlanda, Spagna e Gran Bretagna, dove i decessi sono 6 ogni mille nati vivi, mentre Repubblica Ceca e Slovenia si attestano a 5, in Croazia 8. In Turchia il numero sale vertiginosamente a 40 bimbi morti; alto il dato anche di Albania (29 decessi su 1.000) e Moldavia (27). Gli anziani. In 17 Paesi europei – compresa l’Italia, in particolare il centro-nord – gli anziani sono fra i più poveri della società, per le pensioni troppo esigue. In Belgio, ad esempio, le pensioni rappresentano il 37% di un salario medio; in Bulgaria la pensione sociale media si aggira intorno ai 40 euro e quella minima ammonta a 23 euro. In un’Europa in cui la crescita demografica registra dati negativi e l’aspettativa di vita si allunga, gli anziani rappresentano “una delle fasce più importanti della società”, commenta Caritas Europa. “Dopo aver pagato per decenni contributi economici, le persone anziane dovrebbero avere la possibilità di vivere una vecchiaia serena”. I richiedenti asilo. Il numero di richiedenti asilo in Europa, nel 2001, è cresciuto a 21 milioni e 800mila, dei quali 12 milioni di rifugiati (55%) e 900mila richiedenti asilo (4%). Alla fine del 2000 l’Asia aveva accolto il più alto numero di rifugiati (44,6%), seguita dall’Africa (30%), dall’Europa (19,3%), dall’America del Nord (5,2%), dall’Océanie (0,6%) e dall’America Latina e i Caraibi (0,3%). I richiedenti asilo, che fuggono dalle guerre e dalla persecuzione, spesso si trovano ad affrontare “un sistema ostile et tenacemente burocratico”, osserva il Rapporto. In Francia la situazione dei rifugiati è critica e gli aiuti per ogni adulto si concretizzano in 274,40 euro per la durata di 12 mesi. In Germania i richiedenti asilo, come gli immigrati, appartengono a una categoria fortemente a rischio di esclusione sociale; i loro lavori sono generalmente mal pagati. La Yugoslavia si trova in una situazione particolarmente delicata a riguardo: la grande affluenza di cittadini serbi, montenegrini, rom in arrivo dal Kosovo, ha fatto sì che oltre 500mila persone giungessero a nord del Paese. Circa 625.800 rifugiati, originari della Bosnia Erzegovina, sono dispersi in 40 Stati diversi. Le minoranze etniche e il caso dei Rom. Secondo Caritas Europa, il continente è caratterizzato da “forme inaccettabili di razzismo e xenofobia nei confronti delle minoranze”. Nell’ottobre ’99 vivevano in Europa 8 milioni di Rom, di cui 6 milioni in Europa centrale e orientale; le comunità sono più numerose in Romania (tra un milione 800mila e 2milioni e mezzo), Bulgaria (circa 800mila), Ungheria (circa 600.000), Slovacchia (circa 500.000) e nella Repubblica Ceca (300.000). In Bulgaria il popolo Rom appartiene alla categoria delle persone con un tasso di disoccupazione elevato, d’analfabetismo, di scarsa qualificazione professionale e un elevato abbandono scolastico. Nel decennio scorso in Ungheria la comunità Rom si è ritrovata ai margini della società e il governo ha preso in considerazione i loro problemi, in particolare quello dell’istruzione. In Slovacchia l’aspettativa di vita media della popolazione Rom è di 15 anni più bassa rispetto al resto del popolo slovacco. Il 95% dei Rom macedoni sono disoccupati, quindi svolgono attività illegali; non dispongono di alcun servizio pubblico di base (come il telefono e l’elettricità, l’acqua e i servizi sanitari). In Romania fanno parte della categoria “vulnerabile della popolazione, che soffre di privazioni sociali ed economiche”.


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