Formazione

La politica estera del governo Prodi? E’ tutta qui

Vita pubblica integralmente l'audizione del ministro degli Esteri Massimo D'Alema di fronte alle Commissioni congiunte (esteri, affari comunitari, emigrazione) di Camera e Senato

di Paolo Manzo

Signori Presidenti, signori senatori, colleghi deputati, permettetemi, prima di esporre le linee programmatiche generali della politica estera del Governo, una considerazione di carattere generale.

Veniamo da anni traumatici per il mondo e anche per il nostro Paese e per la prima volta da decenni il sangue di decine di giovani italiani è stato versato in missioni internazionali.

La nostra parte politica si è opposta alla missione in Iraq; coerentemente al mandato ricevuto dagli elettori, il Governo sta predisponendo il rientro dei nostri soldati con le modalità che illustrerò tra breve. Ma certo questo non ci impedisce oggi di indirizzare un sentito tributo a quelle giovani vite, al sacrificio e all’impegno delle nostre Forze armate.

Proprio oggi, a Nassiriya si avvicendano la Brigata Sassari, che da ultima ha dato vita alla missione ?Antica Babilonia?, con la Brigata Garibaldi. E credo che questa debba essere l’occasione per cui da questa sede parlamentare si rinnovi il senso di una gratitudine di tutto il Paese per il lavoro svolto, con grande capacità e con grande umanità, dalle nostre Forze armate.

Sono convinto che i grandi Paesi si riconoscano anche dalla capacità di sentirsi uniti intorno a valori fondamentali e penso che non avremo una politica estera degna di tale nome se perderemo di vista questo essenziale punto di riferimento. In questo il lavoro del Ministro degli esteri cercherà di caratterizzarsi, nel tentativo di contribuire, in un dialogo con il Parlamento e con le grandi forze culturali e sociali del Paese, a definire, ad arricchire, a proseguire una politica estera dell’Italia e non soltanto una politica estera di un Governo.

L’Italia, come Paese fondatore dell’Unione europea e della NATO, come Paese membro del G8 e – dal gennaio 2007 – del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il prossimo biennio, è un Paese impegnato su più fronti e che appartiene senza dubbio al gruppo dei Paesi più importanti sulla scena internazionale. L’appartenenza agli organismi internazionali è la dimensione strutturale della politica estera italiana ed è uno dei motivi per cui il nostro Paese ha un interesse specifico a valorizzare la dimensione multilaterale. Multilateralismo non significa tuttavia annullamento delle responsabilità nazionali. Un multilateralismo efficace richiede anzi un impegno continuativo dei singoli Paesi e gli organismi internazionali funzionano solo a questa condizione. Se l’Italia scegliesse una strada di ripiegamento rispetto agli impegni internazionali, perderebbe qualunque capacità di influenza.

Se la premessa da cui muovere è questa, le scelte basilari della politica estera riguardano l’equilibrio fra i vari ambiti, i vari cerchi dell’azione esterna dell’Italia, il contributo specifico che il nostro Paese vuole esercitare in ciascuno di essi, la distribuzione delle risorse nazionali. Il Governo intende riportare al centro dell’azione multilaterale dell’Italia la dimensione europea, il che significa un impegno coerente e determinato del nostro Paese nell’Unione europea come priorità della nostra politica estera, volto a costruire un’Europa in grado di agire all’esterno per promuovere sicurezza, democrazia, giustizia e sviluppo. Sono obiettivi che rispondono ai nostri principi di politica estera e che, insieme, garantiscono gli interessi nazionali di un Paese come il nostro, fortemente esposto ai nuovi rischi transnazionali.

Le lezioni della crisi apertasi nel 2003 con l’intervento in Iraq dimostrano d’altra parte che l’Europa potrà restare unita solo se avrà una visione comune del rapporto con gli Stati Uniti. La politica estera del Governo intende favorire la crescita di un attore europeo autonomo, ma legato agli Stati Uniti da solidi e maturi rapporti di alleanza. Questa impostazione collega l’attuale Governo ad una tradizione di politica estera intesa nella sua espressione migliore. La politica estera dell’Italia ha dato il meglio di sé, dallo scorso dopoguerra in poi, quando queste due priorità, europeismo e atlantismo, non sono state in contraddizione tra di loro, ma si sono invece completate rafforzandosi a vicenda. Riteniamo che questo filo conduttore debba tornare ad essere l’elemento qualificante della politica estera italiana.

Dopo le rotture storiche dell’ultimo quindicennio, in modo particolare dopo la fine della Guerra fredda, il semplice richiamo alla continuità con le tradizioni non è però sufficiente, rischierebbe anzi di rimanere un esercizio retorico, se le tradizioni non fossero aggiornate. È evidente infatti che le direttrici e i contenuti della politica estera, per essere efficaci, vanno sincronizzati ad una realtà internazionale in rapida trasformazione. Abbiamo bisogno di fare leva sulle basi più solide della tradizione e, insieme, abbiamo bisogno di aggiornamento, di allargare gli orizzonti della nostra politica estera.

Il modo più utile per impostare una politica estera capace di tutelare realmente gli interessi politici ed economici dell’Italia è di essere consapevoli delle opportunità e dei rischi collegati a questa fase dei processi di globalizzazione. Assistiamo, da una parte, all’emergere in Asia e America latina di nuovi grandi protagonisti. Paesi come Cina, India e Brasile stanno guadagnando (ma per Cina e India si dovrebbe dire recuperando) posizioni di crescente preminenza, con una rapidità superiore alle previsioni di pochi anni addietro. L’asse del potere globale si sta chiaramente spostando, se guardiamo agli indicatori demografici, economici, energetici e il rischio principale per l’insieme dei Paesi europei è di soffrire una progressiva marginalità.

È mia convinzione che la politica estera italiana, nei cinque anni passati, non abbia operato a sufficienza in questa dimensione globale. Penso che si debba lavorare per allargare gli orizzonti della nostra politica estera e consolidare i rapporti con i Paesi che ho appena citato è a mio giudizio una priorità da perseguire, che risponde anche a fondamentali interessi economici italiani. Pensiamo a quanto sia fondamentale per noi integrare lo sviluppo della nostra economia con lo sviluppo impetuoso dell’economia cinese, che certamente si presenta come una forte sfida sul terreno della competitività, ma anche come una grande opportunità. Un recente studio del Fondo monetario internazionale ha esaminato l’impatto dello sviluppo cinese sullo scenario economico mondiale, valutando come, nell’arco del prossimo quindicennio, saranno duramente colpiti dalla crescita cinese i Paesi produttori di manufatti e in particolare i Paesi emergenti, mentre si avvantaggeranno enormemente i Paesi produttori di servizi ad alto valore aggiunto, di nuove tecnologie. Il problema non è dunque la Cina, il problema è dove sarà l’Italia, se essa sarà in grado di collocarsi nel segmento dei Paesi che potranno trarre vantaggio dalla crescita e dalla presenza della Cina sulla scena mondiale. Ma oltre agli interessi economici (ho parlato della Cina, avrei potuto parlare del Brasile), vi è anche l’ambizione politica di un Paese come il nostro, che non è una grande potenza, ma che ha una rilevante, potenziale influenza di carattere culturale e politico, che voglia restare ai vertici del sistema internazionale.

Tuttavia insieme all’ascesa di nuove potenze internazionali abbiamo il fenomeno opposto, il vuoto di potere prodotto, soprattutto nel continente africano, dal collasso delle strutture statali in molti Paesi. Dei cosiddetti Stati falliti non si parla abbastanza, eppure ignorare l’esistenza di questi vuoti di potere statale, in preda al circolo vizioso di povertà, sottosviluppo, guerre civili, è più di un delitto morale, è un tragico errore politico, di cui il caso della Somalia ci conferma l’attualità. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla trasformazione degli Stati falliti in base operativa potenziale delle ramificazioni di una criminalità organizzata senza più frontiere o, peggio, in terreno fertile per il prosperare di un terrorismo che ha anch’ esso superato ogni demarcazione territoriale. L’impegno internazionale nella gestione delle crisi è il tentativo di spezzare questa deleteria spirale, deleteria per le popolazioni interessate e per la sicurezza globale.

Compito della politica estera è dunque fare i conti con questa doppia realtà: sono le opportunità del mondo che cresce, i grandi attori emergenti e, insieme, i rischi di un mondo che viene lasciato indietro i nuovi confini a cui adattare la tradizione. Questa è quindi la dimensione in cui operare, avendo molto chiaro che sviluppo e sicurezza dell’Italia dipenderanno dal modo in cui riusciremo a rispondere a queste doppie pressioni della globalizzazione. Tuttavia, si tratterebbe di un obiettivo irrealistico o velleitario, se fosse perseguito puramente su una scala nazionale, di cui ogni giorno è più evidente l’inadeguatezza. La portata delle sfide che ho appena ricordato impegna innanzitutto la dimensione multilaterale come l’unica realmente adeguata, e ciò per noi significa prima di tutto l’Europa.

Guardare all’Europa, adoperarsi per fare dell’Europa un attore globale, consapevole del bisogno di governance, non significa consegnare all’Europa una delega in bianco, non significa abdicare ai propri interessi nazionali in nome di un ideale astratto che altri avranno cura di riempire di contenuti. Al contrario, significa avere chiaro che l’Unione europea è lo strumento più adeguato per promuovere gli interessi del Paese, intesi in un’accezione non miope né egoistica, ma neanche aprioristicamente rinunciataria. Egualmente, insistere sulla dimensione europea non significa delegare responsabilità che sono nazionali, ma esercitarle nella consapevolezza che sicurezza e benessere dell’Italia verranno più efficacemente difesi attraverso una Unione europea più forte e che funzioni.

Inutile nascondersi l’entità della crisi europea. Ripiegata nella pausa di riflessione seguita al trauma del doppio ?no? francese ed olandese al Trattato costituzionale, l’Unione negli ultimi anni si è come arrestata. È necessario rimetterla in marcia. L’Italia deve dare un impulso importante in questa direzione: chi lo trascura non rende giustizia al peso effettivo che il nostro Paese può esercitare. Non serve enumerare ancora una volta le ragioni dello stallo europeo; conviene piuttosto puntare con decisione in avanti, visti i benefici che l’ulteriore sviluppo di questo progetto ha ancora da offrire all’Italia e all’Europa. Illustrarli all’opinione pubblica con pazienza, umiltà e senza paternalismi tecnocratici è il compito di una classe politica, sia italiana, sia europea, che si riconosca nei valori più autentici dell’europeismo. Dalla nostra capacità di recuperare al progetto europeo l’indispensabile base di consenso popolare si misurerà il successo o il fallimento di un’intera classe dirigente. Per riconnettere opinione pubblica e progetto europeo sarà indispensabile il contributo dei parlamenti nazionali e sarà decisivo fare leva sul Parlamento europeo, di cui ho avuto in questi ultimi anni il privilegio di fare parte. Non meno prezioso sarà il coinvolgimento delle società civile nelle sue varie articolazioni.

Si potrebbe osservare, parafrasando Clemenceau, che l’Europa unita è una cosa troppo seria per confinarla unicamente ai dibattiti per iniziati, il che conduce ad una prima conclusione: la discussione sulle prospettive costituzionali dell’Unione deve intanto riprendere nei Parlamenti e nel Parlamento europeo. Un processo del genere faciliterà l’obiettivo primario del Governo italiano, che consiste – voglio dirlo con chiarezza – nel salvare per quanto è possibile l’essenza del trattato firmato a Roma il 29 ottobre di due anni fa: nel senso che noi lo condividiamo pienamente; nel senso che comprendiamo le difficoltà di quei Paesi nei quali il referendum popolare ne ha bocciato la ratifica; nel senso che nella ricerca di soluzioni innovative, accettabili per tutti, il criterio per noi è che quanto più di quel Trattato viene salvaguardato, tanto più queste soluzioni saranno considerate accettabili e positive.

Bisogna scongiurare il rischio che la pausa di riflessione diventi una paralisi. Questo è il messaggio politico sostanziale che come Governo italiano porteremo al Consiglio europeo che si aprirà domani a Bruxelles. Riassumendo i temi centrali di questo Consiglio europeo, credo che si discuterà appunto di che cosa fare per rilanciare il dibattito costituzionale. In particolare, l’Italia sostiene la proposta elaborata dalla Commissione europea, perché nell’occasione del cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma gli Stati membri adottino una dichiarazione solenne, con cui ribadire il comune impegno sui principi, i valori e gli obiettivi della costruzione europea, che possa essere base per la successiva definizione della questione istituzionale. Una dichiarazione solenne che possa svolgere – questo è l’auspicio – una funzione analoga a quella che svolse la dichiarazione di Messina di 51 anni fa, che aprì la strada al Trattato di Roma. Secondo tema di cui si discuterà sarà quello dell’allargamento. La posizione dell’Italia è contraria a lanciare segnali negativi in materia di allargamento. È evidente che il processo di allargamento sarà lungo, complesso, conoscerà varie tappe e richiederà un concreto avanzamento dei Paesi candidati lungo il cammino di un adeguamento ai principi, ai valori, alle regole e ai criteri dell’Europa. Tuttavia noi siamo contrari all’adozione di nuovi criteri, come sarebbe un’interpretazione in questo senso del concetto di capacità di assorbimento da parte dell’Unione, o come sarebbe addirittura, nelle proposte di alcuni Paesi, il criterio dell’atteggiamento dell’opinione pubblica verso l’allargamento, criterio quanto mai arbitrario, che difficilmente può essere proposto ai Paesi candidati che aspirano ad entrare in Europa.

È evidente che il processo di allargamento è strettamente legato ad una riforma che dia efficacia e funzionalità alle istituzioni dell’Unione; ma il messaggio a nostro giudizio deve essere positivo, sia per quanto riguarda l’appuntamento con Romania e Bulgaria, sia per quanto riguarda la prosecuzione di un complesso negoziato con la Turchia (che certamente è proiettato nel futuro) e con la Croazia, sia per quanto riguarda il messaggio da lanciare all’insieme dei Balcani, tema su cui tornerò e che certamente rappresenta una missione anche propriamente italiana.

È evidente che soltanto nella prospettiva di un’integrazione nell’Unione europea si può pensare ad una stabilizzazione nei Balcani, al superamento delle tensioni nazionalistiche che ancora agiscono in quell’area, promuovendo processi ulteriori di nascita di nuovi Stati, tra i quali dobbiamo tuttavia cercare di favorire un’integrazione e una convivenza pacifica. Questi saranno i temi fondamentali. Ovviamente il Consiglio europeo analizzerà anche altri aspetti e in particolare lo sforzo per vedere su quali capitoli si possa procedere concretamente ad un’integrazione delle politiche europee, intanto sulla base dei trattati esistenti, in particolare sui temi della sicurezza comune, del controllo delle frontiere dell’Unione, sui temi della collaborazione in materia di lotta al terrorismo e su alcuni grandi temi economici, a partire dalla questione di una politica europea per l’energia.

In tutti questi campi noi vogliamo avanzare sulla base dei trattati esistenti, mentre escludiamo, come ha giustamente sottolineato il presidente Dini, la logica detta del cherry picking, cioè dell’anticipazione di aspetti del trattato costituzionale, che potrebbe essere intesa da parte di alcuni Paesi come alternativa all’adozione del trattato stesso. Credo, infatti, che nulla di duraturo può essere conseguito senza istituzioni forti, come ammoniva Jean Monnet e come ha ricordato recentemente il presidente Prodi. Le decisioni concrete saranno possibili da parte dei Governi solo con una maggiore chiarezza, in un quadro politico d’insieme che dovrà evolvere. In particolare, non c’è dubbio che l’appuntamento delle elezioni francesi nel 2007 rappresenterà un passaggio fondamentale.

In questo quadro noi attribuiamo un grande valore alla presidenza tedesca dell’Unione nel primo semestre del 2007, contemporanea allo svolgimento delle elezioni francesi e al Consiglio europeo del giugno del 2007, che potrebbe rappresentare un tornante sulla strada del rilancio europeo. Ho fatto riferimento a due Paesi (le elezioni in Francia, la presidenza tedesca) che, come l’Italia, hanno svolto fin dall’inizio nell’Unione un ruolo propulsivo e difficilmente sostituibile. Il loro ruolo è ancora cruciale, ma non esaustivo. Se guardiamo alla dimensione di politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Unione, resta determinante il ruolo della Gran Bretagna; se guardiamo alla politica mediterranea, il ruolo della Spagna è evidentemente cruciale; così come lo è quello di nuovi membri dell’Unione nelle politiche verso l’Est.

Nell’Europa allargata, o meglio riunificata dall’allargamento, una maggiore flessibilità sarà nell’ordine delle cose e aumenterà il ricorso a cooperazioni rafforzate e a forme più avanzate di integrazione per iniziativa di un limitato numero di Stati membri. È nostra convinzione che rientri nell’interesse dell’Italia favorire queste forme di cooperazione rafforzata, assicurando la partecipazione del nostro Paese nell’area della governance economica, della sicurezza interna, della politica estera e della difesa. È essenziale che ciò avvenga sulla base di meccanismi inclusivi e non discriminatori.

Parallelamente l’Europa deve evitare di chiudersi in se stessa. È giusto interrogarsi sui confini ultimi del progetto europeo. Si riferiva a questo Joska Fischer, parlando di finalità dell’Europa e tuttavia, se l’Unione intende portare a compimento la sua missione di riconciliazione storica del continente, la porta “futura adesione” deve restare aperta, come egli sottolineava. Ritengo molto importante il nostro impegno nel rapporto con i Paesi del Balcani. In questi giorni il Montenegro ha scelto per l’indipendenza. L’Europa, e noi con essa, siamo impegnati a riconoscere questo nuovo Stato ed anche ad indicare a questo nuovo Stato, come vicini del Montenegro, la prospettiva di una futura possibile integrazione nell’Unione europea.

Questo vale per il Montenegro e vale anche per la Serbia a cui deve arrivare un messaggio di apertura e di disponibilità da parte della comunità internazionale, anche per evitare un sentimento di isolamento e un pericoloso ripiegamento nazionalistico (pensiamo a tutte le difficoltà legate al negoziato per quanto attiene allo status finale del Kosovo).

È quindi evidente che il processo di riorganizzazione politica dei Balcani non si è arrestato, ma è anche evidente che l’unico modo di sdrammatizzare questo processo e di determinare un quadro di comprensione, di dialogo e di cooperazione tra le diverse Nazioni che sono nate e che continuano a nascere dalla disgregazione della ex Iugoslavia è appunto quello di aprire a questa parte d’Europa la prospettiva di essere parte dell’Unione europea. Credo che nel prossimo Consiglio europeo avremo l’opportunità di impegnarci su questi temi e di manifestare la disponibilità e la volontà dell’Italia di procedere in questa direzione. Un aumento del peso internazionale dell’Europa consentirebbe di affrontare in modo più coeso le grandi crisi che abbiamo di fronte e che hanno formato oggetto di un dialogo molto intenso tra i Ministri degli esteri europei in queste ultime settimane, anche in preparazione del Consiglio europeo.

Anzitutto la questione iraniana, che ha un rilievo prioritario per il nostro Paese, data anche l’importanza degli interessi economici in gioco (come è noto l’Italia è il primo partner commerciale dell’Iran in Europa). Il Governo italiano intende contribuire ad una soluzione negoziata, pacifica della crisi, anche se al momento l’Italia non fa parte del gruppo di Paesi direttamente impegnati nel complesso negoziato con Teheran. Ho avuto occasione questa mattina di avere un lungo colloquio telefonico con il Ministro degli esteri dell’Iran, con il quale ritengo utile anche avviare un dialogo diretto, non naturalmente per creare canali paralleli, ma per contribuire ad un’opera di persuasione sul Governo di Teheran affinché quest’ultimo si disponga ad accogliere le proposte della comunità internazionale, quelle che in particolare qualche giorno fa Javier Solana ha illustrato a Teheran ai rappresentanti di quel Governo.

Nel corso di questo colloquio ho raccolto valutazioni positive e di cauta apertura da parte del Ministro degli esteri iraniano sulle novità del pacchetto che è stato proposto all’Iran. In modo particolare, vi è un apprezzamento sia per il riconoscimento da parte della comunità internazionale del pieno e legittimo diritto dell’Iran a fare ricorso alle tecnologie nucleari per un uso pacifico – ed anzi in tal senso va l’offerta di collaborazione sul piano della fornitura anche delle più avanzate tecnologie – sia per quanto attiene al prospettato coinvolgimento dell’Iran in un impegno comune per la stabilità della regione, anche non escludendo che si possa arrivare ad una Conferenza che impegni i Paesi della regione per definire una prospettiva comune e per creare le condizioni di una collaborazione nella pacificazione dell’Iraq e dell’Afghanistan. È infatti del tutto evidente che senza un pieno coinvolgimento dell’Iran un simile processo appare assai arduo.

Nel negoziato con l’Iran è anche aperto il grande tema dell’impegno della comunità internazionale per evitare ulteriori processi di proliferazione nucleare. Se l’Iran si dotasse di armi nucleari si innescherebbe ciò che un rapporto dell’ONU del 2005 ha definito ?una cascata di proliferazioni in un’area cruciale per la sicurezza europea?.

Certo bisogna riconoscere che la comunità internazionale ed anche le grandi potenze poco hanno fatto in questi anni per implementare il Trattato di non proliferazione ed anche per avviare quella ragionevole riduzione degli arsenali nucleari che ormai da molti anni, dalla fine della Guerra fredda, credo dovrebbe rappresentare un obiettivo non solo necessario, ma anche realistico.

Ritengo importante l’atteggiamento assunto dall’Amministrazione americana proprio per ciò che attiene allo sviluppo della crisi iraniana e la disponibilità da parte statunitense, con una svolta assai significativa dopo più di un quarto di secolo, per una partecipazione diretta ad un negoziato con l’Iran. È una svolta positiva che ha consentito di presentare a Teheran non soltanto un pacchetto negoziale più credibile, ma anche la prospettiva di un riconoscimento del ruolo internazionale di quel Paese, che è parte integrante e assai importante della piattaforma negoziale con la quale siamo andati al dialogo.

Come appena accennato, il Governo italiano ritiene che una politica di coinvolgimento condizionato dell’Iran faciliterebbe la stabilizzazione in Iraq e in Afghanistan. Difficile pensare che la soluzione della crisi in atto nel Golfo possa prescindere da un quadro di sicurezza regionale e dunque siamo favorevoli ad un approccio di questo tipo fino all’idea di una Conferenza che, del resto, come dicevo, è adombrata nel pacchetto negoziale presentato all’Iran. Naturalmente è evidente che questo approccio richiede che l’Iran agisca nei fatti a favore della pace nel Golfo e che, insieme, rinunci alla violenza verbale nei confronti di Israele e riconosca il diritto all’esistenza dello Stato di Israele.

Per quanto riguarda l’Iraq, conoscete il mandato elettorale e gli orientamenti che il Governo sta seguendo. I nostri soldati rientreranno in Italia nei prossimi mesi, comunque entro il 2006, con tempi tecnici e modalità compatibili con l’esigenza di sicurezza, innanzitutto dei nostri stessi soldati, delle popolazioni locali e delle forze multinazionali che resteranno sul terreno. Questo approccio graduale, di un rientro concordato nel corso dei prossimi mesi è stato apprezzato dal Governo iracheno. D’altro canto, la scadenza della missione nel 2006 coincide con l’obiettivo riproposto dal Governo iracheno di una diretta assunzione del controllo della sicurezza delle regioni del Sud del Paese appunto entro la fine del 2006.

Abbiamo avviato e continueremo questi contatti con l’Iraq, con la Gran Bretagna – al cui comando fa capo il nostro contingente in Iraq – e con gli Stati Uniti. Questi contatti sono in corso a livello politico e anche a livello delle autorità militari interessate. Vorrei essere molto chiaro su questo punto: le modalità con cui il Governo sta gestendo il rientro della nostra forza militare si ispirano ad un atteggiamento responsabile. Non vi è alcun abbandono disordinato delle posizioni che l’Italia ha ricoperto nel corso degli ultimi anni, né vi è la volontà di cancellare il valore dell’impegno – come ho detto all’inizio del mio intervento – delle nostre Forze armate in una difficile missione, nella quale sono state sacrificate anche vite umane.

A proposito di alcune polemiche dei giorni scorsi, che ho considerato curiose, voglio dire molto francamente che abbiamo valutato con serietà i diversi programmi che erano stati predisposti. Ci siamo trovati davanti all’ipotesi che nell’area di Nassiriya permanesse un impegno italiano in ciò che la coalizione ha programmato sotto il nome di PRT (Provincial Reconstruction Team). A questo fece allusione anche il ministro Martino nell’audizione di gennaio di quest’anno, parlando di tale missione come di una missione sostanzialmente civile (questa è infatti l’espressione che il ministro Martino usò). Ora, un esame ravvicinato di questi programmi ci ha fatto rilevare che in realtà quello di cui si trattava era la permanenza nell’area di Nassiriya di 30 tecnici civili, fra cui 15 italiani, con la protezione di un contingente di circa mille soldati, di cui circa ottocento italiani.

Sinceramente la valutazione che noi abbiamo fatto è che questa configurazione dell’impegno del nostro Paese fosse difficilmente presentabile come lo svolgimento di una missione sostanzialmente civile e che si presentasse invece come il permanere a tempo indeterminato di un contingente militare nell’area di Nassiriya, cosa che non ci è parsa compatibile con gli impegni politici e le scelte assunte dall’attuale maggioranza di Governo. Ovviamente si possono avere difformi opinioni su questo. Tuttavia, personalmente mi sono reso conto che la missione denominata provvisoriamente “Nuova Babilonia” aveva un così rilevante contenuto militare soltanto quando ho letto i progetti. Infatti, fino a quel momento di questo nessuno era stato informato. E questi progetti ci sono apparsi, come confermato oggi in un articolo dal Ministro della difesa, non compatibili con i nostri impegni elettorali, ed anche assai rischiosi. Il permanere del contingente militare italiano nell’area di Nassiriya per un tempo indefinito pone, anche secondo il parere dei nostri Servizi, problemi assai seri di sicurezza in un’area dove la presenza straniera può anche essere bersaglio di provocazioni, di aggressioni, di attentati. Per cui, o i militari restano con un dispositivo che ne garantisca al massimo la sicurezza oppure il permanere di un contingente militare così ridotto avrebbe persino potuto accentuare gli elementi di rischio.

Dunque, noi abbiamo ritenuto di rispettare l’impegno che le nostre Forze armate si ritirino entro il 2006, con le modalità alle quali ho fatto riferimento. Questo non significa che noi abbandoniamo una posizione politica ed un sostegno concreto per aiutare il difficile processo di consolidamento della democrazia in Iraq. L’Italia è presente in Iraq non soltanto a Nassiriya. E’ presente in almeno due importantissime missioni internazionali: la missione NATO “Training Mission” per la formazione di personale militare, collocata a Baghdad, una missione di formazione, di training, molto importante e tale considerata dalle autorità irachene e di cui l’Italia è il maggiore contributore; la missione europea che si occupa della formazione di personale per l’amministrazione della giustizia (l’Italia è presente con numerosi consiglieri per un’attività di state building, di affiancamento dei ministri iracheni). Noi abbiamo anche discusso con il Governo iracheno altre possibili modalità di aiuto e sostegno; abbiamo deciso di costituire una commissione mista che sta lavorando e che consentirà di arrivare entro il mese di settembre alla firma di un accordo di cooperazione. Questo atteggiamento è stato apprezzato dal Governo iracheno e devo dire che nel dialogo da me avuto con il Primo ministro, con il Ministro degli esteri, con il Presidente del Parlamento, con il Presidente della Repubblica non ho registrato né una particolare insistenza perché l’Italia mantenga precedenti ipotesi di impegno nel cosiddetto PRT (che non sembra essere considerato una priorità dalle autorità irachene), né una particolare protesta per la decisione di ritirare le nostre Forze armate, di cui invece si sono apprezzate in modo esplicito le modalità di azione.

Proseguiremo i nostri colloqui con gli alleati. A margine di questi rapporti bilaterali ci siamo anche adoperati perché il Ministro degli esteri iracheno fosse invitato alla riunione del Consiglio affari generali per un incontro assai significativo con i Ministri degli esteri europei. Questa posizione dell’Italia tesa a favorire un maggiore impegno dell’Unione europea in Iraq (noi siamo favorevoli ad una gestione sempre più multilaterale che porti a superare quella logica di coalition of willing che tanti problemi ha posto) è stata anch’essa apprezzata dal Governo iracheno.

La presenza militare italiana in Afghanistan non è in discussione, a mio giudizio. Il Governo italiano lo ha garantito nei giorni scorsi al Segretario generale della NATO in visita a Roma. A differenza dell’Iraq, la presenza militare dell’Italia in Afghanistan si inscrive in una vicenda che si è sviluppata in un quadro giuridico e politico assai diverso rispetto a quello dell’Iraq. Innanzitutto, fin dall’inizio si è svolta nel quadro di una risoluzione delle Nazioni Unite che in Iraq, come tutti ricordano, intervennero ex post, non soltanto dopo la guerra ma per la verità anche dopo l’invio delle Forze armate italiane e si configurarono nella prima risoluzione nella forma del riconoscimento dei diritti e dei doveri di una forza occupante, cosa questa che non pochi problemi ha posto all’Iraq.

Il quadro dell’Afghanistan è molto diverso e diversa è anche la modalità della nostra presenza, che è nell’ambito di un impegno in una missione NATO, sotto mandato delle Nazioni Unite. Questo costituisce uno dei contributi dell’Italia alla risposta collettiva della comunità internazionale all’attacco dell’11 settembre del 2001. La presenza dei militari italiani in Afghanistan nel quadro della missione ISAF è considerata tuttora indispensabile dalla comunità internazionale, dal Governo afgano ed anche da noi. Dalla presenza delle forze armate dipende anche la sicurezza degli esperti civili, particolarmente impegnati non solo nel settore giudiziario ma in molti altri settori, e delle organizzazioni non governative assai attive nella assistenza alla popolazione. L’obiettivo di rimettere in piedi un Paese prostrato dal regime talebano, con il suo orrido corollario di violazioni dei diritti umani, e delle donne in modo particolare, e di sostegno al terrorismo internazionale è ancora lontano dall’essere raggiunto. Esistono rischi evidenti di disgregazione violenta, esistono preoccupanti segnali di ripresa dei gruppi talebani, resiste una criminalità collegata alla produzione di oppio. Garantire vere condizioni di sicurezza resta una delle condizioni necessarie per consolidare i risultati raggiunti, tra cui il fatto che per milioni di bambini e bambine vi sia la possibilità di tornare a frequentare la scuola.

Bisogna evitare un ritorno al passato, ma è anche evidente che dobbiamo discutere con i nostri alleati del punto critico in cui si trova la missione internazionale; è evidente che alla presenza militare va combinata una strategia politica, umanitaria, economica più efficace e di sostegno alla transizione democratica, alla ripresa del Paese e che tenga conto fino in fondo dei bisogni immediati della popolazione e della sensibilità degli afgani. Il Governo italiano resterà dunque impegnato sul piano militare, anche per poter esercitare un’influenza politica in questo senso, nel senso cioè di affrontare insieme ai nostri alleati una riflessione seria sulle ragioni della difficoltà e sulla necessità di rafforzare gli aspetti politici ed umanitari della missione. Intendiamo in questo senso consultare non soltanto le autorità militari italiane presenti in sede ma anche i rappresentanti delle tante organizzazioni non governative che in modo generoso ed ammirevole prestano la loro opera a servizio del popolo afgano.

So che è molto difficile esprimere un giudizio equilibrato. La realtà, se guardiamo con onestà alla gestione dei processi di state building negli ultimi anni, è che molti progressi sono stati conseguiti (l’evoluzione nei Balcani lo conferma) ma, insieme, sono stati compiuti notevoli errori. La realtà è che si tratta di processi che richiedono un tempo lungo per essere consolidati ed una pazienza che oramai si è ridotta nelle opinioni pubbliche occidentali. È dunque importante una riflessione internazionale che apprenda dagli errori compiuti per migliorare i risultati e non per cessare di agire. È altrettanto importante, infatti, non abdicare a quella che le Nazioni Unite hanno definito “responsabilità di proteggere”: proteggere popolazioni colpite da genocidi e da gravi violazioni dei diritti umani. Nel caso dei Balcani la presenza europea è ancora necessaria. Nel caso dell’Afghanistan restare è una premessa indispensabile per riuscire – come ha sostenuto Kofi Annan aprendo la Conferenza di Londra nel gennaio scorso – a sottrarre l’Afghanistan al conflitto e alla devastazione. ?È nell’interesse dell’intera comunità internazionale? – ha continuato Kofi Annan – ?fornire assistenza all’Afghanistan perché il Paese possa consolidare i suoi passi verso la pace, la democrazia, la sicurezza quale presupposto di progressi su qualsiasi altro fronte?.

Il caso dell’Afghanistan conduce ad una riflessione più generale. Il disagio evidente, le frustrazioni, i risentimenti antioccidentali esistenti nel mondo islamico indicano l’importanza di una strategia politica più efficace nella lotta globale a lungo termine contro il terrorismo fondamentalista. Io credo che gli ultimi anni abbiano cancellato l’illusione che la guerra fosse l’arma più efficace per soffocare il terrorismo. Non sono fra quanti ritengono che si debba escludere in linea di principio l’uso della forza ma credo che si debba rimettere in primo piano l’azione politica, culturale, economica per isolare il terrorismo e per conquistare la grande maggioranza delle opinioni pubbliche dei Paesi arabi e islamici ad un’azione comune contro il terrorismo. Ho dei dubbi che a tre anni dalla guerra in Iraq il mondo sia più sicuro. Temo che questa strategia abbia comportato, nel calcolo realistico del rapporto costi-benefici, costi estremamente alti, cui soltanto una rinnovata ed efficace azione politica può proporsi di porre rimedio.

Un’azione politica più efficace significa anche un’azione politica in grado di generare progressi sul fronte israelo-palestinese. L’Italia intende contribuirvi in modo più attivo così come intende riportare il Mediterraneo al centro delle sue priorità dopo anni di relativa marginalità. La situazione del Medio Oriente appare oggi drammaticamente preoccupante. Il conflitto è in corso; il rischio di un’aspra guerra civile tra le diverse fazioni palestinesi è di fronte a noi; le violenze che si succedono ogni giorno mostrano la condizione drammatica di quelle popolazioni. Tornare ad un tavolo negoziale resta l’unica vera alternativa. Parlo di un negoziato vero, fondato sulle risoluzioni delle Nazioni Unite e che punti ad un compromesso equo e giusto che permetta la coesistenza di due Stati sostenibili.

Perché le parti tornino a sedersi ad un tavolo entrambe devono essere pronte a concessioni reciproche. Questo è quello che l’Unione europea chiede ad Hamas, cioè che Hamas rispetti le condizioni che sono state poste: riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento – come è doveroso da parte di qualsiasi Governo – dei trattati e degli accordi sottoscritti dai Governi precedenti.

L’Italia intende attenersi ad una linea di comportamento europeo rigorosa nell’isolare il Governo di Hamas qualora questo Governo non adempia alle condizioni che sono state poste. Tuttavia, nello stesso tempo, noi ci adoperiamo insieme all’Europa perché l’isolamento del Governo di Hamas non si traduca in una tragica crisi umanitaria nei territori palestinesi. La Commissione europea ha messo a punto un meccanismo temporaneo di finanziamento di attività umanitaria nel campo della sanità, dell’educazione, del sostegno alle popolazioni dei territori palestinesi. Noi lo sosteniamo. Speriamo che il Governo degli Stati Uniti d’America lo sostenga più attivamente, anche sbloccando un impegno – che è necessario – della Banca mondiale. Auspichiamo che anche il Governo di Israele, che ha sospeso il suo giudizio a proposito di questo meccanismo, possa aiutare e sostenere un aiuto umanitario che, facendo perno sulla Presidenza di Mahmoud Abbas dell’Autorità nazionale palestinese, possa giungere direttamente alle popolazioni anche attraverso l’impegno di organizzazioni non governative e di organismi internazionali.

La comunità internazionale, dunque, si fa carico delle ragioni d’Israele, della esigenza della sicurezza e del pieno riconoscimento dei diritti di Israele da parte non soltanto dei palestinesi ma anche dei suoi vicini. Nello stesso tempo noi intendiamo incoraggiare il Governo israeliano a non affidarsi ad una iniziativa unilaterale. La pace può essere costruita soltanto attraverso il negoziato e l’accordo tra le parti. Ed invitiamo anche il Governo israeliano ad una moderazione nell’esercizio del pur legittimo diritto di difendersi perché questa moderazione è essenziale per evitare che tante vite umane di civili non responsabili di atti di violenza vengano cancellate.

In questo quadro credo che la proposta di referendum lanciata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas costituisca un’iniziativa coraggiosa. Penso che la comunità internazionale debba guardare con interesse e sostenere questa iniziativa e che lo stesso Governo israeliano debba – come mi pare stia facendo – considerare questa iniziativa come un’iniziativa coraggiosa che può essere utile proprio a superare quelle pregiudiziali di natura ideologica e fondamentalista che ostacolano il riconoscimento pieno dei diritti di Israele e che hanno fatto arretrare in modo così drammatico la situazione. Chiudo così questa lunga parte del mio intervento dedicato alle crisi ed ai problemi del mondo orientale e mediorientale. Sono questi i punti essenziali che esporrò anche al segretario di Stato americano Condoleeza Rice nella mia missione di Washington venerdì prossimo.

La centralità dell’alleanza dell’Italia con gli Stati Uniti è fuori discussione; costituisce – come dicevo all’inizio – l’asse portante della politica estera di un Governo che guarda alla vitalità di un’alleanza euroatlantica fondata anche su un polo europeo solido e più integrato. Questo Governo ritiene anzi che un’Europa unita sia anche per l’America un alleato più utile di un’Europa divisa e fragile. Europei ed americani hanno in comune molte più cose di quante possano dividerli. Nel caso di divisioni, d’altra parte, la forza delle alleanze democratiche sta nel poterle esprimere apertamente. Europa e Stati Uniti hanno un comune interesse alla diffusione della democrazia, dei diritti umani, dei diritti economici e sociali su scala internazionale. Allargare l’area dei Paesi che godono di questi diritti è una delle migliori garanzie di sicurezza e di sviluppo globale. È un obiettivo che non può dividerci; può a volte dividerci la strategia per conseguirlo. Anche per questa ragione si pone l’esigenza di una vera discussione strategica. Riteniamo come Italia, proprio ai fini di una vera discussione strategica, che il canale della NATO vada affiancato dal rafforzamento del dialogo tra Unione europea e Stati Uniti. Le priorità che ho esaminato sono per il Governo le priorità urgenti di politica estera. Naturalmente non esauriscono l’azione internazionale dell’Italia; avremo occasione di discuterne altre volte.

Vorrei fare solo un rapido riferimento alla politica economica estera, soprattutto alla cooperazione allo sviluppo. All’inizio del mio intervento ho parlato dei grandi attori economici emergenti in Asia, in America Latina. Lì la diplomazia italiana avrà successo solo se sosterrà uno sforzo complessivo e più coordinato nel sistema nazionale.

Ho posto l’accento sulle emergenze umanitarie del continente africano, nel Darfur, nella Somalia, verso cui il nostro Paese sente di avere responsabilità particolari. Anche di questo ritengo di dover discutere con Condoleeza Rice anche perché gli Stati Uniti hanno coinvolto il nostro Paese in un gruppo di contatto per affrontare i difficili sviluppi della crisi somala e per cercare di favorire un dialogo tra il governo transitorio e i gruppi che hanno assunto il controllo della città di Mogadiscio, le cosiddette corti islamiche, esito questo anche di errori compiuti dalla comunità internazionale, in particolare, con il sostegno dato a signori della guerra che certo non erano i più attendibili protagonisti di un processo di pacificazione di quel Paese. Aiutare i Paesi africani a uscire dalla povertà imboccando un circolo virtuoso di sviluppo non è solo un dovere morale, è anche possibile, come mostrano i progressi di crescita in vari Paesi del continente. Non credo che sia in discussione la logica generale della cooperazione italiana, che pone chiaramente al centro la riduzione della povertà. È da discutere il livello degli aiuti dell’Italia, oggi sotto la soglia di qualunque altro Paese avanzato. Un aumento è quindi indispensabile e corrisponde agli impegni assunti dall’Italia sul piano internazionale. È un obiettivo che lo stato della finanza pubblica rende non semplice ma da cui dipende la credibilità del nostro Paese quale donatore internazionale. L’istituzione di un Vice Ministro per la cooperazione sottolinea l’importanza che attribuiamo a questo tema.

Concludendo, mi sembra abbastanza chiaro che se ci sottraessimo a importanti missioni internazionali sotto l’egida delle Nazioni Unite, se mantenessimo livelli ridotti di aiuto pubblico allo sviluppo non potremmo certamente sostenere con coerenza l’importanza di una cooperazione multilaterale centrata sul sistema delle Nazioni Unite, né sostenere il nostro ruolo nel Consiglio di sicurezza dove l’Italia siederà per il biennio 2007-2008.

È dunque particolarmente importante che l’Italia mantenga la capacità di influire su scelte fondamentali per la comunità internazionale. Non è nostra intenzione limitarci ad occupare il seggio cui siamo stati eletti. Vogliamo dare un contributo di idee e di risorse ad una riforma che ha già incontrato molte difficoltà e che, questa è la nostra posizione da tempo, dovrà basarsi su una valorizzazione degli organismi regionali. L’Italia sarà anche membro della Commissione per il consolidamento della pace appena istituita, mentre si apriranno i lavori – il 19 giugno prossimo – del nuovo Consiglio per i diritti umani, un organismo che ha limiti evidenti ma che segna, tuttavia, un progresso rispetto alla vecchia Commissione delle Nazioni Unite. Abbiamo presentato la nostra candidatura al Consiglio per il triennio 2007-2010 assumendo già l’impegno di adoperarci per l’abolizione della pena di morte, la promozione della democrazia e della legalità, la lotta contro ogni forma di discriminazione, di intolleranza, la protezione dei bambini nei conflitti armati e la lotta contro la tortura.

Più in generale ritengo che la tutela dei diritti umani debba avere un ruolo essenziale in una politica estera che voglia darsi, come credo sia giusto, una forte connotazione etica. Ciò vale nel rapporto con tutti i Paesi, con quelli con i quali vogliamo sviluppare rapporti economici e politici più intensi, dalla Cina ad altri Paesi asiatici, vale nel rapporto con i nostri alleati. A proposito di ciò di cui si parla sui giornali in questi giorni, voglio ribadire la posizione, non italiana ma europea, che ancora qualche giorno fa il ministro degli esteri austriaco, la signora Plassnik, ha ribadito di fronte al Parlamento europeo a proposito di Guantanamo ma anche a proposito di altri preoccupanti episodi di violazione dei diritti umani che si sono verificati in questi anni nell’ambito della lotta al terrorismo.

L’Europa si batte perché nella lotta contro il terrorismo vengano salvaguardati i diritti umani e siano rispettate le regole del diritto internazionale e le regole che vigono nei nostri Paesi a proposito di tutela dei diritti fondamentali delle persone. Sotto questo profilo l’Europa, l’Unione europea, ribadisce l’auspicio perché al più presto il Governo degli Stati Uniti d’America provveda alla chiusura del carcere di Guantanamo.

Un idealismo temperato dal realismo deve guidarci nelle scelte internazionali. È il modo migliore per rispondere alle sfide attuali e quindi anche per difendere i nostri interessi nazionali. Impegno ideale, quindi, ma anche realismo e senso dei limiti. Un limite nazionale molto rilevante è quello delle risorse, non solo per la cooperazione ma in generale per lo svolgimento dell’attività di politica estera, per far fronte alla molteplicità dei compiti che ci competono, ai cambiamenti ed alle sfide esterne il Ministero degli esteri ha evidentemente bisogno di mezzi adeguati che da tempo non lo sono più. Senza nuove risorse sarà difficile mantenere coerenza fra obiettivi dichiarati e scelte concrete. È un problema di cui spero non soltanto il Ministero degli esteri ma il Governo tutto e il Parlamento vorranno farsi carico nelle scelte prossime che verranno.

Concludo dicendo, ancora una volta, che mio impegno è quello di contribuire, a partire da questo dibattito, a definire le linee di una politica estera non solo del Governo e non solo perché un Paese complesso come l’Italia (penso alle molteplici relazioni delle nostre città, delle nostre Regioni, della nostra società civile) è un Paese che dispiega una funzione internazionale non soltanto attraverso l’azione del Governo ma attraverso, ripeto, una molteplice presenza italiana nel mondo (penso alle nostre comunità di connazionali all’estero, eccetera) ma perché, come è evidente, una politica estera condivisa o quanto più possibile condivisa tra le grandi forze politiche del Paese è condizione perché il ruolo dell’Italia si eserciti in modo ancora più efficace e significativo sulla scena mondiale.

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