Politica
La politica delle Ong? Cambiare la società
Il past president di Cesvi reagisce alla provocazione di Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid, lanciata sulle pagine di VITA di settembre con l’articolo dal titolo “Care ONG, è ora di fare politica”. «Mi pare proprio che gli obiettivi debbano essere: accrescere l’impatto, la sostenibilità, la partecipazione e l’integrità dei nostri progetti di cooperazione»
“Care ONG, è ora di fare politica”, l’editoriale di Marco De Ponte del bookazine di Vita di Settembre, fa una proposta intrigante, sostenuta da tante verità, che chiama le ONG a reagire al clima di rassegnazione.
Forse, come il Cesvi, sono anch’io «intrappolato nella logica della crescita», ma non riesco a vedere nelle basi associative delle nostre ONG tutta questa rappresentatività della società civile che ci darebbe titolo a farne le veci, come Marco stesso ammette.
O forse anch’io, come la mia organizzazione, «ho pura del conflitto sociale». Ma come non averne visto che oggi i peggiori nemici dello sviluppo – prima ancora della fame e delle malattie – sono proprio l’instabilità politica e i conflitti?
È vero: la nostra sfida “politica” – oltre che all’instabilità e alla guerra – è indirizzata alla povertà e alle «diseguaglianze prodotte dal capitalismo finanziarizzato». In questo senso è vero che «facciamo politica». Ma politica la facciamo anche in ogni altro programma di sviluppo come in ogni attività di advocacy (in cui le nostre organizzazioni sono spesso impegnate, anche insieme, in Italia).
Marco precisa che «fare politica» non significa sostituire i partiti che continueranno a «rappresentarci nelle istituzioni». Questo mi solleva per parecchi motivi. Il più importante è che la nostra società ha bisogno di essere rappresentata da organizzazioni con finalità e modalità diverse, in grado di coglierne e governarne la complessità.
Inoltre, siamo certi che le nostre ONG siano immuni dai vizi dei partiti? Solo oggi le organizzazioni sociali italiane stanno faticosamente uscendo dal nefasto “collateralismo” nei confronti della politica. Perciò mi inquieta un appello all’impegno politico. Faccio infine notare che proprio questi partiti parolai e incapaci di generare un qualsiasi cambiamento ci hanno fatto a pezzi in una sola stagione: abbiamo avuto per decenni la stessa reputazione del Pontefice, ma è bastato che interferissimo con la fruttuosa retorica della paura dei migranti per finire screditati da un paio di rozzi politici.
Ma se la paura non può essere una buona ragione per farsi da parte, in cosa consiste «fare politica» per le ONG? L’editoriale di Marco fa cenno a obiettivi come «frenare la dinamica autoritaria»; «redistribuzione»; «resilienza»; «diritti»; «organizzazione»; «capitale intellettuale»… Ma non è già ciò su cui lavoriamo? O almeno ciò che dovremmo realizzare con i programmi di cooperazione e sviluppo? Semmai è che facciamo troppo aiuto assistenziale d’emergenza, o come lo definisce Marco «transito di donazioni». Semmai è che i nostri progetti di cooperazione allo sviluppo sono insufficienti, occasionali, scoordinati e con orizzonti temporali, territoriali e settoriali troppo limitati. Lo stesso editoriale auspica che «…si usino i progetti per dare concretezza a una prospettiva trasformativa chiara e mai nascosta».
In conclusione, mi pare proprio che gli obiettivi debbano essere: accrescere l’impatto, la sostenibilità, la partecipazione e l’integrità dei nostri progetti di cooperazione. Per questo le ONG devono crescere e svilupparsi. E smettere di raccontare che raccogliamo fondi per un singolo bambino mentre vogliamo cimentarci in progetti di cambiamento della società.
E se vogliamo definire tutto ciò «fare politica» perché “suona bene” non mi sottraggo.
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