Cultura

La poetica di Dylan non sta solo nei testi ma soprattutto nella voce

di Lorenzo Maria Alvaro

In tanti in queste ore stanno discutendo dell’assegnazione a Bob Dylan del Premio Nobel per la Letteratura. Baricco si  chiesto che cosa c’entri Dylan con la letteratura. Doninelli, su Vita, ha parlato di un premio poco coraggioso e fuori tempi di massimo.

Tutti, leggendo la motivazione dell’Accademia, che recita «per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana» hanno archiviato la questione parlando dei testi dell’artista americano. Testi certamente di grandissimo valore.

Ma, a mio avviso, non è così. Non si può parlare di Dylan senza parlare della sua voce. Sgraziata, arrugginita con la sua inusualità era fortemente incisiva. E non, come tanti ritengono, adatta a cantare solo i suoi pezzi folk tradizionale.

L’interpretazione di Dylan, anche di pezzi lontanissimi dal suo repertorio e dal suo mondo di riferimento, ha molto più a che vedere con il teatro che con la musica in senso stretto.

Un esempio su tutti: Bob Dylan partecipò nel 1985 al progetto benefico “We are the world, un brano scritto da Michael Jackson e Lionel Richie, prodotto da Quincy Jones nell’ambito dello United Support Artists for Africa. In sostanza si trattava di una canzone cantata da un super gruppo che annoverava tra gli altri Stevie Wonder, Tina Turner, Diana Ross, Cindy Lauper, Billy Joel e Bruce Springsteen. Insomma tutte voci stellari del pop americano. Lì in mezzo fu invitato anche Dylan.

C’è un video che testimonia le prove di Bob Dylan prima della registrazione. All’inizio l’artista sembra spaesato, la sua voce non si direbbe adatta a quel tipo di canzone e di sonorità. Pian pinao però Dylan entra nel pezzo, ci si accomoda, e poi lo stravolge. Quel pezzo assume personalità, senso e spessore.

Perché è forse proprio la dinamica con cui Dylan canta/recita i propri pezzi a renderli poesia. A renderli da Nobel.

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