Mondo

La piccola Haiti alle porte di Tijuana

In tanti scappano dalla miseria e dalla violenza che si sono impadronite dell’isola dopo il terremoto del 2010 alla volta degli Usa. Ma con l’avvento di Trump sono obbligati a fermarsi in una baraccopoli di lamiera in Messico

di Nicola Nicoletti

Tijuana, Messico. Christopher e la sua compagna Zaida, fanno con pazienza la lunga fila dove distribuiscono latte, biscotti e acqua, indispensabili ora che hanno una figlia.

La bimba era nata da poco, ma loro sono partiti lo stesso, per cercare una vita diversa da quella che avrebbero fatto nella loro Haiti, ora che la svalutazione del gourde, la moneta ufficiale, fa coppia con una inflazione galoppante.

I disordini di questi giorni, secondo l’agenzia EFE, hanno provocato 26 morti e 77 feriti nelle manifestazioni dell’opposizione contro il presidente. I vetri spaccate dei negozi e le macchine divelte fanno capire che ad Haiti questi sono settimane di tensione intensa.

In tanti sono scappati alle porte degli Usa, in un microcosmo, poco noto in America e ancor meno in Europa. Un mondo fatto da case di cartone e lamiera, piccole baracche e la strada che diventa un fiume di fango quando piove tanto.

Benvenuti alla Piccola Haiti, 10 chilometri a sud est da Tijuana. Il caldo in questa fetta di Messico, è già iniziato a marzo. Siamo nello stato della California del Sud, una striscia di terra che si tuffa nel profondo Pacifico. Tijuana, riceve da anni oramai un numero impressionante di migranti che sognano di varcare la frontiera e arrivare a San Diego, uno dei posti più ambiti d’America.

Tra questi la famiglia di Christopher e Zaida è solo una delle migliaia arrivate qui da Haiti. Con il presidente Obama i visti e permessi umanitari permettevano ai migranti di vivere negli Usa per un periodo di tempo e cercare un lavoro.

Con l’arrivo di Trump si sono chiuse le porte degli Stati Uniti e centinaia di famiglie vengono rimpatriate alla frontiera, unendosi a quelle appena arrivati da Haiti. «In tanti sono i rimpatriati e solo adesso il presidente Donald Trump ha concesso la proroga per i 60mila irregolari che vivono negli Stati Uniti del permesso temporaneo, posticipandolo di un anno, al 22 giugno del 2010. Una mossa politica di appoggio al governo haitiano di Jovenel Moise, colpevole, secondo la minoranza, del disastro economico che sta flagellando Haiti». Wilner Metelus, presidente del comitato in difesa degli afromessicani e haitiani naturalizzati in Messico, segue da anni la storia, la storia della sua gente.

Alto, sempre impeccabile, in doppio petto marrone chiaro, è un fiume in piena quando attacca il discorso. «Le case sono su una terra a rischio idrogeologico, una inondazione significa che le tue cose dopo sono inservibili», afferma. Qui la chiesa evangelica e la cattolica offrono un aiuto essenziale a centinaia di migranti. I volontari aiutano a costruire le case e a ottenere i viveri. A fronte delle proroghe e dei permessi arrivati negli ultimi giorni, le forme di razzismo per i non messicani presenti nelle case del migrante sta crescendo, avvelenando un clima non certo sereno. «Assistiamo a vere e proprie forme di violenza, cacciano i centroamericani dalle case del migrante, mettendo per strada famiglie intere», denuncia Metelus.

Le proteste dei cittadini contro gli stranieri sono appoggiate dai politici locali. Le elezioni a Tijuana sono alle porte, il 2 giugno, e fare la voce forte accresce i voti. L’unico argine sono le associazioni vicine alla società civile e alle chiese cristiane che non cessano di offrire viveri e assistenza ad uno dei popoli più disagiati d’America, ironia della storia, il primo paese che ha ottenuto l’indipendenza in America Latina.

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