Politica

“La persona al centro”, ma poi la politica preferisce gli individui

"La persona, diversamente dall’individuo, nella sua irriducibilità e diversità, può essere al centro solo se è in grado di esprimersi integralmente e di poter scegliere una prospettiva di realizzazione. In altri termini potremmo dire che misurarsi con la persona implica il prendersi il rischio di una relazione (per questo motivo è necessaria una motivazione e non solo una competenza) e la capacità di includere non solo i bisogni ma anche le aspirazioni di cui una persona è portatrice". L'intervento del direttore di Aiccon

di Paolo Venturi

La persona al centro. Una frase pronunciata da quasi tutti i protagonisti di questa campagna elettorale estiva, un’affermazione buona per tutte le stagioni e proprio per questo svuotata del suo valore e della sua rilevanza. Una “cantilena” che ha generato nella coscienza e nella percezione di molti cittadini una pericolosa assuefazione che rischia di far sembrare tutto uguale: un intercalare che la consegna all’irrilevanza. Le cose però non stanno così, perciò diventa urgente recuperare la radicalità e la radice di un’affermazione che è carica di responsabilità e che pertanto chiede di essere approfondita e recuperata nelle sue implicazioni pratiche.

La persona, diversamente dall’individuo, nella sua irriducibilità e diversità, può “essere al centro” solo se è in grado di esprimersi integralmente e di “poter scegliere” una prospettiva di realizzazione. Il mainstream economico e il paternalismo politico preferiscono conversare con “individui” (portatori di bisogni o di istanze di consumo) e meno con “persone” che naturalmente ambiscono ad essere felici. Profondamente diverso è domandare ad un cittadino “di cosa hai bisogno?”, dal chiedergli “cos’è per te una buona vita?”. Due domande che messe all’origine delle politiche sociali (ma questa cosa si potrebbe tranquillamente estendere al lavoro, all’innovazione, allo sviluppo) disegnano due percorsi profondamente diversi: uno assistenziale e l’altro capacitante. In altri termini potremmo dire che misurarsi con la persona implica il prendersi il rischio di una relazione (per questo motivo è necessaria una motivazione e non solo una competenza) e la capacità di includere non solo i bisogni ma anche le aspirazioni di cui una persona è portatrice. Misurarsi con la persona implica il misurarsi con l’umano e perciò le politiche che si propongono di mettere “la persona al centro” alla prova dei fatti van misurate nella loro capacità di potenziare la relazionalità, l’iniziativa, la solidarietà, i luoghi e l’innovazione in cui la persona è protagonista. Per fare ciò servono indicatori capaci di guidare le scelte e portare evidenze (e non propaganda) dei cambiamenti generati.

La spesa pubblica, de facto, orienta il modello di sviluppo e pertanto deve essere guidata da indicatori misurabili capaci di far emergere categorie di valore sociale e civile: metriche imprescindibili per chiunque abbia a cuore il bene del suo paese. Mutualizzi o non mutualizzi? Leghi o dividi gli abitanti di un quartiere? Capaciti o assisti? Eroghi o includi? Democratizzi o meno? Mettere “la persona al centro” implica il mettere la relazione al centro, cosa che concretamente postula una visione sussidiaria della società e il ruolo contributivo della comunità, dell’intelligenza collettiva, della cittadinanza attiva, dell’imprenditorialità. La società prima e non dopo, ma nei fatti e portando le prove di quel si dice.

Abbiamo bisogno di politici che si misurino con la terapia e non con una stanca diagnosi. Non è più tollerabile chiamare in causa e rivolgersi alla società civile nei periodi elettorali in maniera strumentale, un po' come si fa con le periferie (anche queste durante le tornate elettorali tornano improvvisamente “al centro”). Alla società civile è chiesta una “postura diversa” in questa campagna elettorale, un approccio che non separi il pragmatismo dall’idealità, il bisogno dal desiderio. Alla politica va chiesto invece di rendere ragione del “come” intende mettere “la persona al centro” e soprattutto facendoci capire concretamente: al centro “di cosa”? Sempre per esser espliciti, la valorizzazione del lavoratore passa solo da suo giusto compenso o diventa necessario anche ridisegnare i modelli organizzativi e di partecipazione per rendere il lavoro trasformativo della persona? La cura e la domiciliarità sono pratiche prestazionali a sportello o richiedono alleanze e infrastrutture sociali co-progettate con il Terzo Settore? La sicurezza è un’azione di mero controllo sociale o la possibilità per ridisegnare i luoghi in una logica che potenzi la partecipazione? I giovani che desiderano rimanere nelle aree interne possono aspirare ad immaginare il proprio futuro nel proprio territorio o sono inevitabilmente destinati a rincorrere i flussi che transitano nei grandi poli urbani?

Domande che chiedono risposte fattibili, realistiche (dichiarando da chi e come si recuperano le risorse) e di uscire da una visione distorta e ridotta di ciò che è il “consenso”. È arrivato il tempo per la società civile organizzata di uscire dal tatticismo, stimolando non solo la conoscenza delle proposte programmatiche dei diversi partiti, ma anche la loro necessaria declinazione in termini concreti e la visione “antropologica” e di “società” verso cui tendono.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.