Sostenibilità

La peggior calamità è l’oblìo

Che cosa insegna (ancora una volta) la tragedia in Abruzzo

di Redazione

Da Avezzano nel 1915 a San Giuliano di Puglia nel 2002. La storia della dorsale appenninica è costellata di eventi sismici devastanti. Eppure sembra che ogni volta ci si dimentichi del passato. Come dimostrano l’ospedale dell’Aquila e i centri storici devastati.
E la gente di San Giuliano che vive ancora nelle casette di legno…
Quanto abbiamo visto col terremoto all’Aquila scatena una rabbia infinita per come ancora una volta questo nostro Paese non sia in grado di agire in modo coerente alle situazioni di rischio che ben si conoscono. Saremo anche un popolo di santi e navigatori, ma certamente un popolo con la memoria corta. Del terremoto di Messina tutti hanno sentito parlare, pochi però sanno che nel 1915 l’Abruzzo subì un terremoto devastante che rase al suolo città come Avezzano, con quasi 10mila morti su 13mila abitanti. Si stimarono ben 30mila morti, l’intera Marsica fu colpita (con migliaia di vittime a Gioia dei Marsi e Pescina).
Dopo la tragedia a San Giuliano (in Molise, 2002) si accelerarono i lavori per ultimare la mappa del rischio sismico in Italia, mappa finalmente terminata nel 2003. Questa è stata poi ulteriormente aggiornata nel 2006  (http://zonesismiche.mi.ingv.it/ ) ed risultato è che il 70% del territorio del nostro Paese risulta a rischio sismico con le zone a più alto rischio caratterizzate dalla dorsale appenninica. Ma questo si sapeva da moltissimo tempo e possiamo dire con sufficiente certezza che se fossero state adottate per tempo le conoscenze tecniche a disposizione, oggi conteremmo molti meno morti. Non si tratta solo di tecniche che riguardano i palazzi nuovi (si pensi al Giappone), ma anche i centri storici, visto che esistono tecniche antisismiche per il recupero strutturale di fabbricati in muratura tradizionali. È un problema economico, certamente, ma è anche un problema di volontà e di controlli. Non a caso la Procura sul terremoto ha aperto un fascicolo ipotizzando il reato di omicidio colposo.
L’ospedale di San Salvatore a L’Aquila è stato inaugurato nel 2000. Oggi, dopo una scossa di terremoto del 5,8 della scala Richter è stato dichiarato inagibile per il 90% delle strutture. Si tratta di un edificio in cemento armato, costruito (in teoria) nel pieno rispetto anche delle normative antisismiche vigenti in Italia, quindi obbligatorie e non derogabili soprattutto nel caso di costruzione di edifici pubblici, dal 1974.  L’Ospedale San Salvatore rimarrà non tanto il simbolo del terremoto dell’Aquila, quanto della scelleratezza e dell’ignavia delle pubbliche amministrazioni nel mettere in sicurezza il Paese. E non si tratta solo di rischio sismico ma anche di un pericolo che deriva da una fragilità strutturale idrogeologica e da una potenzialità di rischio vulcanico che non ha certo fermato la follia edilizia in zone come il Vesuvio o l’Etna.
Vogliamo credere, dobbiamo credere che questa volta sarà diverso. E con terrore speriamo che non accada, ad esempio, quanto è accaduto a San Giuliano in provincia di Campobasso, in Molise, quando  il 31 ottobre 2002 ci fu un terremoto di 5,4 gradi della scala Richter. Morirono 27 bambini e un’insegnante nella scuola elementare Francesco Iovine. Dopo oltre sei anni, chi va oggi a San Giuliano vede ancora un paese distrutto, moltissime le costruzioni su cui non sono ancora neppure iniziati gli interventi di restauro e consolidamento, molte quelle ancora transennate o segnalate come pericolanti. Ed intanto la gente vive nel villaggio delle casette di legno realizzato dirimpetto al paese. Giustamente la gente si oppose alla soluzione Gibellina, cioè all’abbattimento del vecchio paese per  ricostruirne uno nuovo, e tutti sposarono la soluzione Gemona del Friuli, del recupero di quanto si poteva recuperare in loco. Ad oggi dei 1.135 abitanti di San Giuliano solo 470 sono rientrati nelle loro case.
Per la ricostruzione in Abruzzo si stanno dicendo molte cose, dagli americani che potrebbero farsi carico del restauro di alcuni beni storici, alle Province che sarebbero invitate di farsi ciascuna carico della ricostruzione o del recupero di un edificio pubblico. La cosa che spaventa maggiormente è ancora una volta l’idea di queste fantomatiche città nuove che si vorrebbero costruire. È chiaro che nei borghi praticamente rasi al suolo c’è poco da fare, ma attenzione a trasformare L’Aquila o altre luoghi storici in simulacri della memoria senza i rumori, gli odori, i sapori della vita quotidiana. Ancora una volta non può costituire problema la demolizione e la ricostruzione di un quartiere periferico, ma certamente sarebbe gravissimo se un’intera comunità fosse trasferita altrove, magari vicino ma sempre altrove, perdendo quel tessuto di viuzze, palazzi, piazze, luoghi che sono l’essenza stessa della loro identità. Occorre dunque immaginare una paziente opera di ricostruzione e con onestà intellettuale attrezzarsi a tempi che non potranno essere quelli delle promesse della politica. Con la speranza che la storia del terremoto in Abruzzo abbia un epilogo diverso da quello di tante altre storie italiane.

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