Cultura
La parola inclusiva scudo contro l’infodemia
La parola, pronunciata responsabilmente, esprime tutte le abilità nel rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Essere responsabili significa essere in condizione di rispondere, di legarsi all’altro con lealtà, di “essere di parola”, di rispondere di sì al bene; significa aver cura dell’altro in quanto, come dice Heidegger, “ognuno è quello che fa e di cui si cura”
Il tempo di profonda incertezza che stiamo vivendo ci pone dinanzi una sfida di grande portata, di umanità: in un tempo “infodemico”, di circolazione impazzita di informazioni confuse, perché non sempre vagliate e misurate, di semantiche mistificatorie che trasfigurano la realtà, di talk show che immolano lemmi sull’altare del sensazionalismo e della spettacolarizzazione, come possiamo riscoprire un’etica della parola?
Frequentemente, nella lettura o nell’ascolto, l’uso della parola è banalizzata, manipolata, strumentalizzata, violentata, usata come “l’olio di ricino del duemila” (cit.). Come riscoprire la bellezza di una narrazione che sappia ricucire, in tempi così difficili, i legami sfaldati a causa dell’azione corrosiva di un soggettivismo estremo, e impauriti per un virus che ci obbliga ad una revisione delle nostre ermeneutiche categorie interpretative? La parola è elemento costitutivo che fa di noi degli esseri umani. È ciò che ci permette di comunicare, di raccontare e di raccontarsi, di abitare insieme la civitas, di sperimentare relazioni cooperative e inclusive che generano valore sociale, dunque anche di produrre trasformazioni e cambiare la realtà.
La parola, pronunciata responsabilmente, esprime tutte le abilità nel rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Essere responsabili significa essere in condizione di rispondere, di legarsi all’altro con lealtà, di “essere di parola”, di rispondere di sì al bene; significa aver cura dell’altro in quanto, come dice Heidegger, “ognuno è quello che fa e di cui si cura”.
Sì, fraseggi dall’alto profilo etico, che ci raccontino di sé e dell’altro, senza negare la dignità. Un proverbio africano così recita: “la ferita provocata da un parola non guarisce”.
Si sperimenti una nuova alleanza nell’ascolto e nella mediazione, modalità per evitare guerre di opinioni, da fedayyìn divisi in contrapposte fazioni.
In questo momento storico-sociale di disincanto per il nostro Paese, ritengo sia eticamente responsabile un invito a narrazioni prudenti che sappiano farsi prossimo, che non alimentino odio. Un invito a lavorare ad una pedagogia della comunicazione educativa, che ci orienti a vivere ogni relazione responsabilmente.
Per curare la complessità di questi giorni, abbiamo bisogno di un linguaggio rinnovato, che curi le nostre relazioni lacerate da continui “ossimori”. Un linguaggio capace di legare l’estetica all’etica delle parole.
Penso alle persone più vulnerabili, dagli anziani patrimonio di memoria e saggezza, ai tanti feriti nel corpo e nell’anima, ai più piccoli, sospesi tra il già di una didattica senza volti e il non ancora di una ripartenza luminosa che dia loro la gioia di un’esperienza che profumi di comunità, a tutti coloro che sperimentano solitudine e smarrimento: non manchino parole “spezzate insieme”.
Così diceva Jack Gilbert: “Sogno vocabolari perduti che possano esprimere alcune cose che non possiamo più dire”.
Ecco, voglio immaginare nuovi vocabolari nell’ hic et nunc del nostro tempo, responsabilmente e con ritrovata fiducia, superando sospetti, paure e chiusure per assumere il coraggio liberante dell’incontro.
C’è bisogno di pensare il linguaggio, ovvero di immaginare una nuova forma di vita: decidere di aprire all’altro e al diverso non solo le braccia ma anche il cuore e l’intelligenza, sentire l’accoglienza come ginnastica quotidiana che aiuta a trasformare la lontananza in prossimità, la mancanza in presenza, ritrovarsi in compagnia degli uomini animati da uno spirito di dialogo che apre alla cultura della reciprocità, disponibili ad accogliere ragioni di senso, di speranza e di futuro…
È una parola! a proposito di quanto sia facile a dirsi ma non a farsi.
Proviamoci.
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