Libri
La pace possibile in un mondo in frantumi
Nel volume "Cercando un Paese innocente”, Pasquale Ferrara, direttore generale per gli affari politici al ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, spiega come la guerra tenda a far salire alla ribalta due atteggiamenti polarizzanti: realismo e pacifismo. Ferrara suggerisce che non siamo costretti a scegliere: il realismo utopico può essere il punto di convergenza tra i due atteggiamenti, e quindi il punto di partenza per un nuovo modo di costruire la pace - in Yemen, in Ucraina, in Sudan, in Palestina
“È più pazzo il pazzo, o il pazzo che lo segue?” (Obi-Wan Kenobi, Guerre Stellari – Episodio VI – Una nuova speranza). La domanda retorica di un Maestro Jedi in esilio ha più a che fare con il nostro mondo di quanto potrebbe sembrare, così come una citazione pop ha più a che fare con un libro di geopolitica di quanto avvenga di solito.
È quel che rende diverso il libro Cercando un Paese innocente (edito da Città Nuova) di Pasquale Ferrara, direttore generale per gli affari politici al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, con il sottotitolo “La pace possibile in un mondo in frantumi”: l’abilità di trattare tutti i temi geopolitici scottanti e controversi che dominano il nostro presente non solo con la profondità e l’acutezza derivanti dalla lunga esperienza in diplomazia, ma anche con una curiosità intellettuale contagiosa ed una sensibilità umana che non teme di rifarsi alla delicatezza di una poesia di Montale, all’universalità di Shakespeare, alla saggezza di Yoda. Anche il titolo tratto da Ungaretti e l’epigrafe da Charlie Brown non sono velleità letterarie o strizzatine d’occhio, ma i primi segnali dello spirito audace e a volte controcorrente delle riflessioni e delle proposte avanzate.
Oltre a muoversi tra le tante questioni (la crescente tensione tra le potenze mondiali, le responsabilità della globalizzazione, le crepe dell’ordine internazionale…) che compongono lo stato di policrisi in cui siamo immersi, quasi come in un quadro di Escher senza vie di fuga, Ferrara si preoccupa in particolare di affrontare il modo in cui noi stessi, come società e come individui, pensiamo a tali questioni e a come immaginiamo – o non riusciamo a immaginare – di venirne a capo. Un tema su tutti: la guerra, che tende a far salire alla ribalta due atteggiamenti polarizzanti: realismo (lettura del mondo in termini di puri rapporti di forza) e pacifismo (rifiuto della violenza e ricerca, a tutti i costi o quasi, di soluzioni che vi mettano fine il prima possibile).
Il realismo è spesso considerato l’atteggiamento più maturo e razionale, mentre il pacifismo un’illusione, una presa in giro, nel migliore dei casi un’utopia. Tuttavia, prima o poi vale la pena chiedersi: se si corre a rotta di collo verso un precipizio, è più realista chi cerca di frenare o chi tira dritto, magari pensando che la caduta non farà così male o che tanto qualcun altro ne uscirà anche peggio? Allo stesso tempo, se la cautela nel valutare soluzioni di pace è giusta, non c’è niente di più realista del constatare che la pace si fa sempre con i nemici – quel che viene fatto passare per impensabile prima o poi dovrà avvenire.
Ma Ferrara fa ben più che parteggiare per l’uno o per l’altro: suggerisce invece che non siamo costretti a scegliere, riallacciandosi al realismo utopico di Morten Tønnesen. Un cambiamento radicale dello status quo risulta spesso molto più arduo da concepire rispetto alla sua continuazione, ma a ben vedere quel che è davvero irrealistico è pensare che qualunque data situazione sia perpetua, indefinitamente sostenibile: “un realista utopico è colui che […] ha il coraggio di lottare per idee e stati desiderabili (non importa come siano le prospettive a breve termine) e che ha la consapevolezza che lo status quo è solo un fenomeno passeggero”. Questo è tanto più vero per le situazioni di conflitto, per cui sarebbe nel migliore interesse anche della parte (più) offesa pensare alla pace, cioè al futuro. Il realismo utopico può essere il punto di convergenza tra i due atteggiamenti/schieramenti, e quindi il punto di partenza per un nuovo modo di costruire la pace – in Yemen, in Ucraina, in Sudan, in Palestina.
Una delle suggestioni più affascinanti del libro è il suggerimento che la distanza tra la realpolitik e Gabriel García Márquez è tanto breve o ampia quanto vogliamo, o lasciamo, che sia. Che il realismo di una certa concezione delle relazioni internazionali e il realismo magico di un Nobel per la letteratura possano esistere nella stessa dimensione può apparire ingenuo solo a chi non segue attentamente le argomentazioni di Ferrara, che non sorvola affatto su errori e mancanze dell’ordine internazionale, ma nemmeno lascia che schemi di pensiero ottusi o tarlati da cinismo inibiscano la volontà di continuare a immaginare soluzioni etiche ed efficaci.
Si scopre così che le linee di frattura che ci separano e rendono tanto fragili possono essere attraversate – quando non colmate – da persone (in politica, diplomazia, nella società civile) animate da partecipazione, sollecitudine, buona volontà, disposte ad esporsi per permettere che si crei fiducia reciproca – da cui il dialogo, da cui la pace, da cui la salvezza.
AP Photo/Felipe Dana/LaPresse
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