Medio Oriente

La pace a scuola? È insegnare l’amore alla verità

Dall'escalation del 7 ottobre a un nuovo approccio per gli insegnanti al conflitto israelo-palestinese. Ne abbiamo parlato con Flavio Lotti della Rete scuole di pace

di Alessio Nisi

Lavorare sull’idea di futuro, per aiutare i ragazzi a cambiarlo. Mettere nelle condizioni gli studenti di riscoprire l’amore per la verità, facendo sì che sappiano districarsi tra le fonti e riconoscere i pozzi avvelenati della disinformazione. E poi spingerli a impegnarsi nella cura: di sé, degli altri, del mondo, a partire da esperienze che li mettano in contatto con il diverso, con la difficoltà, con il conflitto. In una parola, educare alla pace. Nella maniera in cui le scuole possono e devono farlo. Senza esperti, né tifoserie, ma con un percorso che dall’educazione alla democrazia arrivi e plani all’educazione ai nuovi media.

Insegnare la pace nelle scuole, dopo che il 7 ottobre Hamas ha lanciato un attacco missilistico su Israele e dopo quasi due anni di guerra in Ucraina? Sì, c’è chi si impegna da 25 anni in questa direzione. Si chiama Flavio Lotti, originario della provincia di Treviso, 63 anni: è il coordinatore della tavola della pace, direttore del Coordinamento nazionale Enti locali per la pace e i diritti umani e della rete nazionale delle scuole di pace. Dal 1995 è anche l’organizzatore della marcia Perugia-Assisi, oggi diventata Perugiassisi.

Flavio Lotti

La conferma di un fallimento

«Questa ennesima escalation della guerra», dice del conflitto tra Israele e Palestina, «che da oltre 70 anni insanguina la Palestina, è la conferma del fallimento di quegli adulti che avevano promesso di eliminare dal mondo il flagello della guerra e non l’hanno fatto, né in Medio Oriente né in in Ucraina né in tantissime altre realtà. Purtroppo già Papa Francesco 10 anni fa aveva parlato di una Terza guerra mondiale “a pezzi”, parole le sue che allora vennero derise, ma che sono di drammatica attualità».

La rete delle scuole di pace nasce per promuovere l’inserimento permanente dell’educazione ai diritti umani nei programmi degli istituti di ordine grado io mi chiedo. Dopo il 7 ottobre che cosa è cambiato se è cambiato qualcosa nel vostro approccio al tema?

Non è cambiato assolutamente niente, questa tragedia conferma l’urgenza di cambiare il modello di educazione in maniera che sia in grado di formare nuove generazioni capaci di costruire la pace.

Che suggerimenti vi sentite di dare ai professori?

Più che suggerimenti noi offriamo delle piste, degli strumenti di lavoro che abbiamo elaborato insieme agli insegnanti e ai dirigenti scolastici in oltre 25 anni. Ricordo che non andiamo direttamente nelle scuole, ma le aiutiamo a camminare con le loro gambe perché possano essere esse stesse dei veicoli di pace.

C’è una pista che quest’anno proponete in maniera particolare?

Sì, è quella che si svolge in 5 percorsi. Il primo è quello della lavoro sul futuro, sulla sua alfabetizzazione: purtroppo, a questo proposito, i nostri ragazzi soffrono di un grande disorientamento e ne hanno quasi paura. C’è bisogno di renderli capaci di lavorare sul domani in maniera da poterlo trasformare. La seconda pista è quella dell’educazione alla pace, che si sviluppa in 15 esercizi. Ce n’è poi una terza, che è quella dell’educazione alla cura di sé, degli altri e del pianeta. Un’altra che si riferisce ai passi di San Francesco. La quinta pista infine è quella dell’educazione alla cittadinanza digitale.

Come ha impattato il conflitto israeliano palestinese su questi strumenti?

Allo stesso modo di come hanno impattato tutte le altre guerre, compresa quella in Ucraina. La prima cosa da fare è aiutare i ragazzi a riscoprire l’amore per la verità. Purtroppo siamo in un tempo in cui siamo riempiti di informazioni manipolate e ed è molto difficile capire che cosa è vero che cosa è falso. Ecco, dobbiamo mettere i ragazzi delle condizioni di diventare loro stessi dei cercatori di verità.

In che modo?

Cercare la verità vuol dire andare a leggere fonti diverse e imparare a metterle a confronto, porsi tante domande e andare a scovare le risposte. Per questo, sul tema della guerra, diciamo no alle lezioni con un esperto, né ai dibattiti che mettono a confronto due tesi, soprattutto perché portano le persone a fare i tifosi e noi non abbiamo bisogno di tifoserie. Abbiamo bisogno di persone che siano capaci di riconoscere le proprie responsabilità e quindi anche il proprio ruolo. Questo si può fare solo attraverso un lavoro di ricerca e di riflessione.

Fra le scuole della vostra rete ce n’è qualcuna che è gemellata con una scuola palestinese o in Israele?


Da anni ormai abbiamo visto venir meno l’entusiasmo di quelle scuole e di quelle persone che per molto tempo hanno lavorato per costruire e sostenere il dialogo tra israeliani e palestinesi. Sì, noi abbiamo avuto molte realtà che questa esperienza di apertura l’hanno vissuta in prima persona, portando gli studenti in Israele e in Palestina. Ma stiamo parlando degli anni Novanta. Purtroppo poi c’è stata la chiusura, il venir meno dell’impegno e dell’interesse. Ricordo che fino al 6 ottobre nessuno si interessava più di Palestina e di Israele.

In questi giorni come rete scuola della pace siete a Padova per un incontro di formazione e di aggiornamento per dirigenti e docenti. Lei interverrà In una sessione intitolata “La mia scuola per la cura”.

Al centro di questa conferenza c’è un programma, trasformare il futuro, un obiettivo che è la pace, e un mezzo che è la cura. Ecco la cura è il modo più concreto che noi oggi abbiamo per fare pace. Ma parlare di pace non basta, bisogna assumersi la responsabilità di prendersi cura degli altri, cominciando dai più vulnerabili, quelli che sono vicini alle nostre case, per arrivare a tutti quei popoli che come quello palestinese sono sottoposti a guerre, torture, oppressioni, occupazioni. 

Come si impara a prendersi cura di sé, degli altri, del mondo, della democrazia e della pace?

Dal 2016 siamo impegnati con i docenti nello sviluppo di soluzioni pedagogiche per educare alla cura.

Che vuol dire?

Vuol dire formare ragazzi e ragazze che sappiano prendersi cura del mondo e delle loro vita di più è meglio di come l’abbiamo saputo fare noi.

Lei ha scritto che la pace si deve studiare, imparare e insegnare, proprio come una disciplina.

La pace, certo, non è una materia scolastica ma un obiettivo che si raggiunge con un’azione trasversale e condivisa da tutti coloro che fanno scuola, compreso il personale non docente. Ognuno ha delle responsabilità, per questo lavoriamo per costruire delle scuole che sappiano educare alla pace, facendo fare ai loro studenti un’esperienza che gli permetta di affrontare le diversità, i conflitti e le difficoltà, cercando insieme quegli strumenti che possono evitare dolore, sofferenze e ferite.

Quali strumenti possono utilizzare gli insegnanti?

Prima di tutto chiamerei in causa l’educazione ai nuovi media. Abbiamo bisogno di imparare a vivere nella società dell’informazione e di educare i nostri ragazzi a vivere dentro a questi mondi cercando di non alimentare e non diventare vittima dei linguaggi dell’odio e allo stesso tempo cercando di usare questi strumenti per far crescere la consapevolezza e la coscienza. È poi necessaria l’educazione alla partecipazione civile democratica. Ecco, per tornare alla ricerca della verità, questa implica una assunzione di responsabilità. Noi siamo profondamente corresponsabili di quello che sta succedendo in Israele e in Palestina e bisogna che gli alunni vengano accompagnati anche nella riflessione sulle nostre responsabilità

Ma come si insegna ad un ad uno studente a prendersi cura dell’altro se i messaggi di odio sono così prevaricanti?

L’educazione alla cura si fa offrendo agli studenti la possibilità di vivere delle esperienze di cura. Concretamente? Andare a conoscere le realtà dove ci si prende cura degli altri, che può essere un campo di accoglienza per rifugiati, ma anche spazi per persone con disabilità, o per donne vittime di violenza, o di attenzione dell’ambiente. Bisogna portare i ragazzi fuori dall’aula e far loro conoscere i luoghi della cura, fargli vivere esperienze concrete e impegnarli a fianco degli operatori.

Sua moglie Randa Harb, nel comitato promotore Marcia Perugia-Assisi della Pace e della Fraternità, è palestinese.

Prova molto dolore e rabbia, soprattutto nei confronti di tutti quelli che avevano la possibilità di impedire l’escalation della violenza e che non l’hanno fatto.

La fondazione Perugia Assisi, di cui lei è promotore, è tra gli organizzatori di “I bambini incontrano il Papa, in programma il 6 novembre”.

L’intenzione del Papa è di incontrare simbolicamente tutti i bambini del mondo, di abbracciarli e di ascoltare quello che avranno da dire. Ci auguriamo che quel giorno possano venire i piccoli coinvolti in tutte le guerre e quindi speriamo anche che possano esserci i bambini palestinesi, israeliani, così come speriamo possano venire anche gli ucraini e i russi. Non è facile perché l’odio è drammatico e i percorsi di pace vengono spesso interrotti. Ma non molliamo.

In apertura foto Pixabay. Nel testo immagini per gentile concessione di Ufficio stampa Fondazione Perugiassisi

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