Famiglia

La nuova formazione iniziale degli insegnanti? Troppo lunga e senza pratica

Le critiche di Fondazione Giovanni Agnelli all'impostazione della nuova formazione iniziale degli insegnanti, così come ora è prevista dalla legge delega contenuta nella Buona Scuola

di Redazione

Ieri al MIUR, alla presenza del Sottosegretario Faraone, si è svolto il quinto tavolo sulle deleghe contenute nella legge La Buona Scuola. Questa volta al centro del confronto c’era la formazione iniziale dei docenti e l'accesso all'insegnamento. All'incontro sono intervenute le associazioni dei dirigenti scolastici, dei docenti, dei genitori, dei rappresentanti degli studenti, del mondo accademico e dei centri di ricerca sulla scuola. C’era anche Andrea Gavosto, della Fondazione Giovanni Agnelli, che è stato molto critico sull’impostazione prevista dalla legge 107.

La legge disegna così la formazione iniziale dei docenti e il loro accesso alla cattedra: chi ha una laurea magistrale (120 crediti, di cui un minimo di 24 in discipline psico-pedagogiche e didattiche) può accedere a un concorso nazionale, vincendo il quale si ottengono l’assegnazione a un’istituzione scolastica (o rete di scuole) e un contratto retribuito a tempo determinato di durata triennale di tirocinio. A seguito di “positiva conclusione e valutazione” del tirocinio triennale, il candidato sottoscrive un contratto a tempo indeterminato e diventa definitivamente docente di ruolo.

Quattro sono le critiche che la Fondazione Giovanni Agnelli ha mosso a questo modello.

1 – Ci allontana dall’Europa. Il sistema proposto è strettamente "sequenziale": la teoria (sia disciplinare sia pedagogica-didattica) viene sempre prima della pratica. I momenti di effettiva pratica didattica nelle scuole sono previsti solo a partire dal secondo anno del tirocinio. Finché l’aspirante insegnante è all’università non fa alcuna pratica di insegnamento. Ciò è del tutto anomalo rispetto al resto d’Europa, dove si è imposto un modello "parallelo" con l’alternanza e l’integrazione di formazione teorica e formazione pratica all’insegnamento, che cominciano già negli anni di università.

2 – Non distingue chiaramente abilitazione e assunzione. Un principio che deve restare fondamentale per la scuola pubblica italiana è che abilitazione non significa ancora assunzione: la confusione su questo punto è stata all’origine di tante criticità della storia recente della scuola italiana (vedi questione Gae). Nel modello proposto la distinzione tra abilitazione e assunzione non è affatto chiara, se non altro perché non si parla più esplicitamente di “abilitazione” e non si comprende quando essa possa venire conseguita nel percorso. Ma il timore è che abilitazione e assunzione possano coincidere.

3 – Non definisce modi e criteri della valutazione che portano all’assunzione a tempo indeterminato. Secondo il testo, al termine del percorso triennale di tirocinio, il candidato sottoscrive un contratto a tempo indeterminato, a condizione di una “positiva conclusione e valutazione”. Viene spontaneo chiedersi: a chi spetta una decisione così importante? Con quale rigore ci si aspetta che questa venga presa? Il testo è totalmente silente in merito. Si pensa forse di seguire per analogia il modello di valutazione dell'anno di prova oggi adottato per i neoassunti, fragile e poco rigoroso?

4 – Dura troppo. Il sistema prevede che un insegnante si formi in 8 anni. Decisamente troppi, anche alla luce di quel che accade negli altri sistemi europei (ad esempio, il sistema tedesco, forse il più lungo, può avere una durata al massimo di 6/7 anni. Inoltre, col sistema proposto si posticipa eccessivamente il momento della scelta di una giovane di diventare insegnante, che avviene di fatto alla conclusione della laurea magistrale, rischiando di diventare una scelta "residuale", in mancanza di meglio.


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