Politica
La notte del sindacato
Quale rapporto esiste tra il Governo e il sindacato? Quali sono le ragioni della sua crisi? In quale modo il sindacato si può riformare e autoriformare? Francesco Occhetta prova a rispondere a queste domande sull’ultimo numero del bisettimanale La Civiltà Cattolica. Un'anteprima
La lunga notte nella quale è immerso il sindacato sembra soffocare la speranza di un’alba nuova. La perdita d’identità che va al di là della crisi di rappresentanza degli enti intermedi tocca la natura, la funzione e il ruolo della missione sociale del sindacato italiano. La stessa opinione pubblica ha pareri contrastanti. Per una parte di essa il sindacato rimane uno strumento della prima Repubblica legato a un modello di lavoro, quello fordista, che non esiste quasi più.
Altri ritengono che la fatica di rappresentare le nuove forme di lavoro dei giovani e i lavoratori privi di tutele rappresenti una «sospensione» della democrazia. Certo, il compito dei sindacati è mutato nel tempo, la loro organizzazione si è appesantita, il linguaggio sembra desueto, mentre l’impatto della loro azione sociale si è affievolita. I problemi e le tensioni interne ai tre sindacati confederali rimangono infine un freno a mano tirato, che sta bloccando la corsa contro il tempo per ridefinire la missione dell’azione sindacale.
Dinanzi a questo scenario complesso, fatto di rendite e di conservazione del potere ma anche della responsabilità e del desiderio di ripensare il ruolo sociale del sindacato per garantire i lavoratori dalle nuove forme di contratto (molte delle quali a termine), cercheremo di rispondere a tre domande: quale rapporto esiste tra il Governo e il sindacato? Quali sono le ragioni della sua crisi? In quale modo il sindacato si può riformare e autoriformare?
Il difficile rapporto tra sindacati e Governo
Ai sindacati confederali sono iscritti circa 12 milioni di lavoratori: 5,7 milioni alla Cgil, 4,4 milioni alla Cisl e 2,2 milioni alla Uil. Dei 14.400.000 lavoratori dipendenti, gli iscritti ai sindacati confederali sono circa 6.300.000, il 44%.
I sindacati, dal loro punto di osservazione, hanno visto mutare il contesto culturale nel quale sono nati. Dall’inizio della crisi economica del 2008, circa 567.000 lavoratori dipendenti hanno perso il lavoro; nel 2013, circa 13 milioni di persone hanno subìto riduzioni di stipendi, di orario di lavoro, oppure un cambiamento nella natura del loro contratto, che da indeterminato è passato a tempo determinato. È così che in pochi anni i sindacati si sono trovati a inseguire nuovi modi di tutela senza essere riusciti ad anticiparli e a prevederli. Parte dei lavoratori precari non è costituita da dipendenti, ma da lavoratori autonomi privi di tutele sindacali, come ad esempio i freelance dell’editoria, i tecnici e i professionisti che lavorano in proprio. Si tratta di un esercito di lavoratori definiti dalla dottrina giuslavorista «il quinto stato»: molto tassati, privi di tutele e garanzie e, in genere, anche poveri.
Con l’arrivo a Palazzo Chigi del Presidente Renzi, la cui generazione è cresciuta ignorando i sindacalisti, il rapporto tra Governo e sindacati si è complicato. Già durante la prima Leopolda, nel 2011, Renzi aveva dichiarato l’intenzione di «rottamarli». Da quella sede, quando non era ancora presidente, attaccò i loro bilanci che «fatturano centinaia di milioni di euro» e «rappresentano per il 54% i pensionati che hanno uno spazio, ma chi ha 30 anni non lo ha»; li aveva anche ironicamente definiti «la coperta di Linus della sinistra».
Da neo-eletto Presidente la sua posizione non è mutata; in un’intervista in una nota trasmissione televisiva ha dichiarato: «Ascoltiamo Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, ma decidiamo noi. Avremo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione». La posizione del Presidente viene da lontano e fa parte di una sua antica strategia: invece di curare un corpo ammalato, lasciarlo al suo destino e davanti alle proprie responsabilità. Giocano a favore di Renzi la debolezza e le divisioni interne dei sindacati, come pure il calo della fiducia tra i cittadini, registrato dai principali sondaggi. I sindacati hanno un ingente patrimonio grazie alla legge n. 902/1977, che assegnò loro il patrimonio dei sindacati fascisti: «circa tremila immobili la Cgil, cinquemila la Cisl e un numero imprecisato la Uil».
A livello politico, il Presidente Renzi ha «archiviato» definitivamente, dopo la posizione di Mario Monti, la pratica della concertazione pensata da Ciampi e da Amato agli inizi degli anni Novanta, quando le grandi decisioni economiche venivano prese dal Governo insieme ai sindacati. Il Presidente del Consiglio si è limitato ad incontrare i sindacati per la prima volta il 7 ottobre 2014 per circa due ore, ma si teme che quella sia anche l’ultima volta.
Gli attacchi frontali hanno finito per far breccia nello scudo dell’unità sindacale. Rimane simbolica la divisione dei tre sindacati confederali sul bonus di 80 euro, che tecnicamente è ora una detrazione fiscale. In generale, la Cgil è rimasta orfana del suo partito di riferimento, il Pd guidato da Renzi; la Uil tende a sposare le scelte del Governo; la Cisl è rimasta priva dei suoi interlocutori politici di centro.
L’affondo più duro del Governo contro i sindacati rimane il taglio dei fondi destinati ai patronati, cui vengono assegnati circa 430 milioni di euro l’anno. Certo, le ragioni tecniche giustificano i tagli a causa della spending review, ma è la scelta politica a destrutturare la intermediazione dei sindacati. Rimane una battuta — e tuttavia esprime una sensibilità — quella del Presidente del Consiglio ai dipendenti pubblici, che minacciavano lo sciopero: «Mandatemi le vostre e-mail!», disse. Altre critiche radicali arrivano dal M5S, che nel suo programma dipinge i sindacati come parte di un sistema da cambiare, perché «sono vecchi come i partiti». La posizione politica del M5S è ancora più radicale di quella del Pd di Renzi, avendo messo sotto accusa la cassa integrazione e proposto la com-proprietà delle aziende per chi viene assunto.
Questo scontro tra politica e sindacato a che cosa porterà? Quale proposta alternativa da parte del Governo potrà garantire la rappresentanza sociale?
(…) Per quasi cinquant’anni Cgil, Cisl e Uil hanno condiviso unanimemente scelte e obiettivi fondati su ciò che la dottrina definisce come «unanimismo sindacale (…) L’unanimismo sindacale si riflette nella legge n. 300 del 20 maggio 1970, passata alla storia come lo «Statuto dei lavoratori» (…)
Per anni l’unità del sindacato è stata poter pronunciare insieme i nomi dei propri leader, sapendo che la decisione era unica.
La rottura dell’unità sindacale alla base della crisi di rappresentatività
L’«unanimismo» sindacale si è rotto per l’opposizione della Cgil e della sua componente metalmeccanica, la Fiom, a causa di alcuni accordi collettivi approvati dagli altri sindacati. (…) Questa presa di posizione, simile a un boomerang, ha infranto gli equilibri che si erano creati, al punto che la Fiom, in conseguenza alla sua opposizione, si è ritrovata priva del potere di costituire rappresentanze aziendali (Rsa) e unitarie (Rsu) all’interno dello stabilimento Fiat.
Sulla vicenda rimane un «però». Il 5 marzo 2016, ad un convegno sull’industria dell’auto, Maurizio Landini ha affermato: «Nessuno nega che la Fiat, prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, fosse a rischio di fallimento e oggi no […]. Di tutto questo noi siamo contenti». Tuttavia, nel 2010 la Fiom invitò i lavoratori della Fiat a votare «no», accusando la Fim-Cisl e la Uilm di essere «sindacati gialli», padronali. Senza appello sulla politica della Cgil è la posizione di Pietro Ichino: «Non soltanto Maurizio Landini, ma anche Susanna Camusso, se vogliono essere onesti fino in fondo, devono riconoscere che dalla metà del secolo scorso è sempre stata la Cisl a compiere la scelta giusta e la Cgil a compiere quella sbagliata, a tutti i bivi di fronte ai quali il movimento sindacale si è trovato».
La Corte Costituzionale ha trovato una soluzione di compromesso con la sentenza n. 231 del 2013, con la quale legittima a costituire rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) anche i sindacati che, pur non avendo sottoscritto l’accordo, hanno partecipato alle trattative.
(…)
Verso quale futuro?
In questo momento storico i sindacati hanno più paure che proposte, sono più rivolti a rimpiangere il passato che a sognare un nuovo modello per il futuro. Certo, temono che il Governo imponga loro di registrarsi per sottoporsi al controllo dello Stato e adempiere il dettato costituzionale, oppure che imponga loro il modello francese che abilita alla contrattazione collettiva solamente quei sindacati che, sottoponendosi a test periodici, diano prova di essere rappresentativi. Tuttavia, la vera spada di Damocle per il sindacato è l’introduzione per legge di un salario minimo legale. Questa scelta metterebbe a dura prova l’esistenza stessa del sindacato, perché sottrarrebbe il potere di individuare attraverso la contrattazione collettiva i minimi retributivi, che sino ad oggi esso ha esercitato in via esclusiva. I tesserati ancora in attività non arrivano alla soglia dei 6 milioni. Si tratta del 25% rispetto al totale dei lavoratori in attività; iscritti al sindacato sono il 40% di pensionati e il 10% di giovani. Con una percentuale di questo genere, possono i sindacati essere ancora rappresentativi per tutti?
Il conflitto che sta acuendo lo scontro tra Governo e sindacati non può essere schiacciato su un presente privo di soluzioni alternative, ma va inquadrato in uno scenario politico e culturale più ampio. Sulla ponderazione di questa scelta pesano gli atti della Costituente sul rapporto Governo e sindacati e l’insegnamento di Tocqueville, che nella sua opera La democrazia in America scriveva: «Se il governo venisse dappertutto a sostituire le associazioni, anche la morale e l’intelligenza di un popolo democratico correrebbero pericoli non minori del commercio e dell’industria».
D’altra parte, i sindacati vivono una sorta di tempo supplementare, che richiede un coraggioso colpo d’ala che ampli la natura stessa dell’azione sindacale: «Sta proprio in questo incrocio tra pluralismo sindacale, rappresentatività ed efficacia “soggettiva” dei contratti, il lascito dell’art. 39 Cost.».
È stato scritto che «il successo di un sindacato non si misura sulla mobilitazione, bensì sulla capacità di incidere politicamente sulle scelte di governo». I luoghi del sindacato — che sembrano ridursi a quelli dei media — devono ritornare a essere le piazze, gli ambienti di lavoro anche in sede europea, per garantire i lavoratori delle multinazionali.
In questi ultimi anni i sindacati hanno patrimonializzato i loro beni e investito sia nei Caf, per dare servizi sul territorio, sia negli sportelli di consulenza giuridica. Questa trasformazione dei servizi rappresenta una delle principali entrate economiche, ma pone un problema sulla loro natura. Nel dibattere culturalmente il destino del sindacato è importante riconoscere il merito storico di argine nella lotta al terrorismo e negli accordi sull’inflazione, che hanno consentito all’Italia di entrare nell’Unione Europea con le carte in regola.
Un primo passo è rappresentato dall’autoriforma della contrattazione — con il rafforzamento di quella di secondo livello — e la costruzione di un sindacato moderno che non dica sempre e solo «no» alle imprese, a volte schiacciate da tassazione, lungaggini burocratiche e assunzioni complesse.
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