Formazione

La nostra parola non è mai l’ultima

La studiosa pubblica un affascinante ritratto dell’“uomo ebreo”. Intervista ad Elena Loewenthal.

di Sara De Carli

"O noi, o la memoria". Frase lapidaria, quella che Elena Loewenthal lascia cadere verso la fine del suo nuovo libro, Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio (Einaudi). E non è nemmeno l?unica. «L?unico modo per sopravvivere è rinnegare la Shoa», dice nella pagina precedente. Perché la Shoa «non appartiene al popolo ebraico». Sassi, che però servono più a ritrovare la strada, come nella favola di Pollicino, che ad armare la mano. Per il Giorno della memoria, la Loewenthal ci regala un capitolo straordinario, lontano dalla memorialistica e dalle prediche, sulla solitudine ebraica e su quella ?cosa dolorosa? che è stata la Shoa: lo fa mettendosi sulle tracce (ancora) di ciò che gli scrittori ebrei hanno detto di sé, scrivendo d?altro.
Vita: La pagina come specchio. Varrà anche per lei…
Elena Loewenthal: Io che di solito ho un grande amore per le parole, quando si tratta della Shoa ho un?afasia. Non riesco a pensarla, dirla, raccontarla. Infatti il capitolo sulla Shoa è dedicato a Paul Celan, che come me ha difficoltà a dirlo e con la sua poesia tematizza l?inenarrabilità di ciò che è accaduto. Celan dopo Maidenek usa sempre il tedesco, la lingua dell?assassino e dello sterminio, come se fosse una vendetta, e la Shoa non la nomina mai: la chiama «da, was war», «quel che è stato». George Steiner dice che l?ebreo è uno che legge con la matita in mano per la nota a margine: io credo che di fronte alla Shoa la matita caschi di mano.
Vita: Perché ostinarsi a parlare la lingua dei carnefici è una vendetta?
Loewenthal: L?unico modo per sopravvivere, per i sopravvissuti, è stato rinnegare la Shoa. La Shoa non appartiene alla storia ebraica, è anzi qualcosa che le è totalmente estraneo: estraneo perché è il tentativo quasi riuscito di eliminare la stessa storia ebraica.
Vita: A chi appartiene, allora?
Loewenthal: La Shoa è storia degli altri. Gli ebrei ci hanno messo solo il silenzio dei morti. Quando mi dicono «Ah, ma voi ebrei insistete troppo sulla memoria della Shoa», io difendo la mia estraneità. A me questa memoria non ha nulla da insegnare: la memoria – se insegna qualcosa – lo insegna al resto del mondo. Con la Shoa ci devono fare i conti i carnefici, non le vittime. Le vittime non hanno conti da fare, se non quello dei propri morti. Per questo non vado più a parlare nelle scuole. E anche perché non vedo la ragione di andare a sbandierare in giro il mio star male: io soffro, il Giorno della memoria, una sofferenza soprattutto di frustrazione perché mi rendo conto della mia incapacità di soffrire con i sopravvissuti, la mia impossibilità a capire ciò che i miei genitori e i miei nonni hanno provato.
Vita: Guardiamo la Giornata della memoria dal punto di vista dei carnefici. Ha ancora senso farla?
Loewenthal: È necessaria, ma il fatto di ricordare di per sé non insegna nulla. Primo Levi diceva che il fatto che la Shoa sia accaduta rende più probabile che si ripeta ancora. Quel che cambia le cose è la partecipazione emotiva, l?inerme consapevolezza che tu non potrai mai provare il dolore dei sopravvissuti, che c?è una distanza abissale che ti separa da loro. La consapevolezza dell?incapacità di entrare in quel dolore è il solo fatto positivo.
Vita: Primo Levi però, con il suo the alla vigilia della liberazione, che ha ispirato il titolo di Benigni, sembra lasciare uno spiraglio di positività nel male assoluto. È un tratto proprio dell?ebraismo?
Loewenthal: Certo, l?ebraismo ha nel suo dna la speranza, che fa sì che ogni storia abbia il suo riscatto. Infatti ogni tragedia, nella nostra lettura teologica della storia, ha un riscatto, per quanto costoso sia. La Shoa è un?eccezione a questo meccanismo. Sono d?accordo che la storia ha i suoi spiragli, ma la Shoa non è uno di questi.
Vita: Qual è la sua immagine per dire chi è l?ebreo oggi?
Loewenthal: Quando ho letto dell?uomo con la matita ho detto «eccomi». Ci sono tantissimi non ebrei che leggono con la matita in mano, ma per me essere ebrei è non mettere mai l?ultima parola, lasciare sempre aperto, rilanciare sempre e sapere che la tua parola non è mai l?ultima. È un bel conforto e sarebbe anche salutare.


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