Politica
La neolingua della destra al potere
"Natalità", "sovranità", "made in Italy" (in inglese), "merito", "politiche del mare": saggio breve per orientarsi nel vocabolario del nuovo governo di destra-centro
Nel 2019 il filosofo Michel Onfray ha pubblicato Teoria della dittatura, un libro nel quale illustra le procedure messe in atto dal potere per creare, in modo surrettizio, un sistema liberale nella forma ma illiberale nella sostanza. Il libro è poco più che una parafrasi di quanto già esposto in 1984 e La fattoria degli animali di George Orwell, pensatore cardine del ’900, la cui profondità di analisi in termini di filosofia politica non è intaccata in alcun modo dal fatto che questa sia stata espressa in forma letteraria.
Orwell, e Onfray al seguito, individua nell’azione sulla lingua uno dei principali stratagemmi per orientare la società verso un tipo di totalitarismo “moderno”, che non ha bisogno di camicie nere o bandiere rosse, perché agisce su un diverso strato esistenziale; non all’esterno della persona, con repressione e percosse, ma dentro, modellando coscienze docili al dispotismo esercitato dal pensiero dominante.
Secondo questa idea, l’impoverimento della lingua è uno dei fattori che conduce all’irreggimentazione e all’obbedienza. L’impoverimento si otterrebbe attraverso una serie congiunta di operazioni, come «praticare una lingua nuova; usare un linguaggio a doppia valenza; distruggere parole; piegare la lingua all’oralità; parlare una lingua unica; eliminare i classici» (Onfray).
Non siamo troppo lontani da Pier Paolo Pasolini, che nei suoi Scritti corsari accusa il “fascismo dei consumi” di aver “bruttato” la lingua italiana per sempre: «Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era rigenerato da continue invenzioni, e all’interno di questo dialetto, di gerghi ricchi di invenzioni quasi poetiche: a cui contribuivano tutti, giorno per giorno (…). Il modello messo ora lì dalla classe dominante li ha bloccati linguisticamente (…): si è caduti in una specie di nevrosi afasica; o si parla una lingua finta, che non conosce difficoltà e resistenze, come se tutto fosse facilmente parlabile».
Di chi sono state le parole? Dal ’68 a oggi, le parole sono state di sinistra. All’inizio hanno sostituito le parole della Chiesa: peccato e redenzione (questi poli esistenziali entro i quali si svolge la vita di ognuno, credente o non credente che sia). Con cosa? Con la versione immanente e collettiva che di queste parole ha dato il messianesimo marxista: lotta di classe e realizzazione dell’uguaglianza.
Ha funzionato per un po’. Poi, dopo il crollo in Occidente dei regimi comunisti, il lessico si è progressivamente svuotato di quella spinta ideale che, se da una parte non era più in grado di interpretare i cambiamenti della composizione sociale, almeno muoveva passioni e lasciava acceso un sentimento di giustizia da contrapporre all’individualismo sfrenato che già si annunciava.
Dopo anni di apatia conditi da un eccesso di moralismo antiberlusconiano, qualcosa di quel sentimento si è risvegliato con Salvini ministro dell’Interno. La recrudescenza delle politiche contro i migranti ha riunito in un moto di condanna unanime sinistre e mondo cattolico. Qualcosa di quel sentimento ha prevalso, anche e per fortuna, durante la pandemia, consentendo di mantenere dritta la barra, e di uscire da una tragedia epocale, nonostante i venti della follia no-vax che soffiavano forte. Ve lo ricordate Zangrillo? Il virus è clinicamente morto… Ve lo ricordate il video della Santanché, oggi ministro, che dà una festicciola in casa e, ballando, dice che si deve riprendere a vivere, che bisogna liberarsi dalla dittatura delle mascherine?
Tutto questo non è bastato. Ma non perché la gente è ignorante, come pensano i più snob tra i democratici. Non è bastato perché le parole della sinistra, che hanno egemonizzato il dibattito culturale quasi totalmente, oggi sono senz’anima, e non hanno più la forza di muovere il cuore delle persone.
Da un certo punto di vista, la profezia di Orwell è ribaltata. Perché se c’è qualcuno che ha tentato, in tutti questi anni, di creare consenso attraverso l’imposizione di un modello culturale univoco, è proprio chi oggi si vede sconfitto, e giustamente non se ne capacita, perché gli sembrava di avere lavorato così bene con le parole! La neolingua della sinistra, inclusiva per chiunque meno che per chi la pensa diversamente, ha fallito. E forse i promotori di un progressismo sempre più algido e appiattito sulle esigenze voraci del mondo occidentale dovrebbero rileggersi Charles Baudelaire, quando dice: «Ma non è particolarmente attraverso istituzioni politiche che si manifesterà la rovina universale, o il progresso universale; poiché il nome poco importa. Sarà attraverso l’avvilimento dei cuori» (da Razzi).
Difficile stupirsi però, del fatto che la destra al potere provi a imporre la sua, di neolingua. È una destra che si dichiara orgogliosamente antiglobalista, identitaria, sovranista. Dovrebbe adottare un vocabolario gradito a Michela Murgia? Vedere Massimo Giannini che si straccia le vesti da Lilli Gruber perché ora c’è il Ministero della famiglia, della natalità e delle pari opportunità dà la misura dell’ottusità e della pochezza di chi non riesce mai a dialogare con l’avversario, preferendo ragionamenti che procedono per anatemi ed esorcismi.
È stata aggiunta la parola “natalità”. Non è una parolaccia. Come nota Antonio Polito sul Corriere del 22 ottobre, politiche a favore della natalità sono «prassi in molti paesi europei». Solo in Italia – né col centrodestra berlusconiano, né con i vari centrosinistra – si sono mai avute vere politiche di «sostegno pubblico alle scelte procreative delle famiglie». In più, non è nemmeno stata eliminata la parola che, tradizionalmente, proviene dalla gauche: “pari opportunità”. Cosa c’è da strepitare tanto? A certi personaggi andrebbe ricordato un altro pensiero di Pasolini, sempre dagli Scritti corsari: «Ogni zelo nasconde sempre qualcosa di poco bello: anche lo zelo antifascista».
Fa sorridere, piuttosto, il modo con il quale il nuovo esecutivo ha provato a introdurre le sue parole senza allargarsi ai ministeri di peso: economia, interno, difesa, salute, giustizia sono rimasti tal quali. E affidati a personaggi che, lo dico agli amici cattolici che hanno votato a destra, non sembrano del tutto in sintonia con i pensieri di papa Francesco. Crosetto è pur sempre uno dei massimi rappresentanti della lobby delle armi in Italia, per quanto oggi dimissionario dai ruoli di spicco che ha ricoperto in quel settore.
Ma lascio le considerazioni sui personaggi a chi è più esperto di me. Anche perché di processi alle intenzioni ne abbiamo già piene le tasche.
Tornando alle parole, ribadisco che l’operazione si annuncia timida. La parola “sovranità”, così inequivocabile e ideologicamente connotata – e, mi si lasci dire, così deludente – è stata riesumata per l’unico regno su cui tutti gli italiani, di destra e sinistra, sono d’accordo: quello alimentare.
Chiariamo: il concetto di “sovranità alimentare” non l’ha inventato Giorgia Meloni. Tutt’altro. Sembrerebbe appartenere al lessico di Greta Thunberg, piuttosto. Perché con sovranità alimentare si intende «un indirizzo politico-economico volto ad affermare il diritto dei popoli a definire le proprie politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo, basandole sulla piccola e media produzione (…) che riguarda, in particolare, le popolazioni indigene colpite da problemi di produzione e distribuzione del cibo, a causa dei cambiamenti climatici e dei percorsi alimentari perturbati che influiscono sulla loro capacità di accesso alle fonti alimentari tradizionali e contribuiscono all’aumento delle malattie» (Wikipedia). In pratica si tratta di qualcosa di serio e vitale nei paesi più poveri, dove la produzione locale è minacciata dalle procedure messe in atto dalle multinazionali.
Ora, il mio commento è: ma l’Italia, ottava potenza economica mondiale, che esporta eccellenze alimentari in ogni parte del mondo, che ci martella con pubblicità che ripetono ossessivamente “100% italiano”, e dove la multinazionale Domino’s Pizza, sbarcata 7 anni fa, ha chiuso tutti i negozi della sua catena per mancanza di clienti… questa Italia ha davvero bisogno di un concetto come “sovranità alimentare”?
Il fatto è che quella parola doveva entrare da qualche parte. Per forza. Un contentino all’elettorato bisognava pur darlo, visto che la politica estera perseguita dal governo Meloni sarà, a quanto pare, tutto meno che sovranista, ma in piena continuità con i governi precedenti, alla faccia di chi l’ha votata con il miraggio di un’Italia libera dal giogo di Bruxelles…
Un’altra denominazione che definirei perlomeno trasandata è quella del Ministero delle imprese e made in Italy. Ma può una forza che ragiona in termini di “gloria della Nazione” introdurre un anglismo nella dicitura di un sì alto organo istituzionale? Ministero delle imprese e della manifattura italiana, no? Che ci vuole. Ma ve le devo insegnare io queste cose?
Sul Ministero dell’istruzione e del merito faccio mie le parole di Luigino Bruni su Avvenire del 23 ottobre: «La scuola, tutta la scuola, non è mai stata fondata sul merito. Se la guardiamo da lontano e in superficie, vediamo i voti, qualche bocciatura, e pensiamo che la scuola somigli alle imprese: i voti come i salari, il profitto scolastico come l’avanzamento di carriera. Ma questa è una visione troppo distante e quindi sbagliata della scuola (e delle imprese). L’ideologia meritocratica che sta cercando con successo di occupare anche la scuola si basa sul dogma che i talenti siano meriti e quindi chi ha più talento deve essere premiato di più. Ma tutti sappiamo che questo dogma è un imbroglio, o quantomeno è illusione, per la società e ancor più per la scuola. Perché i talenti sono doni, e le nostre performance nella vita dipendono dai talenti-doni ricevuti, molto poco dai meriti. Quale merito per essere nato intelligente, ricco, persino buono? (…) La scuola di tutti e per tutti è stata pensata e voluta per ridurre le diseguaglianze sociali e naturali che la meritocrazia, cioè l’ideologia del merito, aumenta. Tutti i bambini e le bambine vanno e devono andare a scuola, non solo i meritevoli. Tutti devono essere messi nelle condizioni di poter fiorire e raggiungere la loro eccellenza, non solo i più meritevoli. Tutti hanno diritto a cura, stima, riconoscimento, ammirazione, dignità anche se non hanno molti meriti o se ne hanno meno degli altri».
Se questa interpretazione è sbagliata, perché, come qualcuno sostiene, la parola “merito” si riferirebbe agli insegnanti e non agli studenti, be’, allora l’obiezione è doppia: quando si introduce un nome nuovo, in un contesto pubblico così importante, questo nome non deve presentare alcuna ambiguità. Meglio sarebbe stato, allora, chiamarlo Ministero dell’istruzione e delle eccellenze educative. Ma capiamo che la parola “merito” è più di destra. È un’altra parola/contentino, come “sovranità”; strizza l’occhio a un bacino culturale nel quale Meloni ha raccolto milioni di voti, cioè il bacino degli scontenti, il bacino di quelli che si sentono ai margini della riuscita sociale e che si misurano nella logica perversa di un successo che a loro sarebbe stato negato non per demeriti, ma perché non sufficientemente raccomandati o amici delle persone giuste. Che in Italia esistano logiche di raccomandazione e clientelari è indubbio. Che il successo, soprattutto in ambiti culturali come l’editoria o il giornalismo, sia più facilmente raggiungibile se si appartiene a una certa area di pensiero, credo non lo si possa proprio negare. Ma proprio per questo la parola “merito” associata all’istruzione sembra fuori posto, collocata lì perché altrove sarebbe stato osare troppo.
In sintesi, non so se trovare tutta questa faccenda più deludente o più divertente. Meloni introduce qualche parola di destra, ma in punta di piedi, con grande parsimonia (non considero “natalità” o “sicurezza energetica” parole di destra) e nei posti sbagliati. Immagino che l’operazione procederà, con molta cautela, a partire dai nomi che si daranno a nuove leggi, decreti, manovre.
Rimane però una denominazione, che taluni hanno interpretata come folcloristica – pizza, mandolini eccetera – ma che a me, invece, fa venire i brividi: quella del Ministero delle politiche del mare e Sud. Quella parola: “mare” – anzi “politiche del mare” – introdotta da una forza che cianciava di blocchi navali e di navi di soccorso da affondare (navi pagate da Soros per sostituire la forza lavoro bianca con quella nera, nei discorsi più deliranti) è terribile come può esserlo solo una parola neutra finita nelle mani sbagliate.
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