Cultura

La musica «prova a vederla a modo mio»

di Lorenzo Maria Alvaro

Nel 1981 fonda il gruppo post punk AUT AUT, in cui è chitarrista e compositore. Il suono della band è vicino a quello di band inglesi come Joy Division, The Cure, Bauhaus, Killing Joke e Siouxsie and the Banshees e i testi sono in italiano. Nel 1991 fonda i Massimo Volume con altri studenti fuori sede. Con loro suona fino al 1993. Poi è solo Santo Niente.
Questa potrebbe essere in brevissimo la storia di Umberto Palazzo. Una voce autorevole e libera del panorama musicale italiano.

Voce che abbiamo deciso di far parlare a ruota libera a Battiti Per Minuto visto il momento di grande frenesia che la musica italiana sta vivendo. Dalla petizione di Boeri per una legge sulla musica dal vivo, passando per la scelta di Thom Yorke dei Radiohead di andarsene da Spotify fino al manifesto lanciato da XL di Repubblica e Manuel Agnelli degli Afterhours. Un grande fermento in cui Palazzo ci aiuterà a districarci tra proposte vere, battaglie da sostenere e specchietti per le allodole.

 


 

Sei pronto a parlare senza filtro?
Vediamo cosa riusciamo a fare (ride)

In pochi giorni una petizione di Stefano Boeri su Change.com sta avendo un grande successo. Chiede al ministro della Cultura di varare una legge sulla musica dal vivo che tolga burocrazia e difficoltà. Che ne pensi?Sono d’accordissimo. È la stessa cosa che avevo proposto io qualche anno fa. Ormai i concerti, quelli che in gergo chiamiamo concertini, cioè che vengono fatti in locali dove non si fa esclusivamente musica live, sono impossibili da organizzare e antieconomici. In particolare per il perverso sistema dei borderò per i compensi Siae. Questi soldi vengono ripartiti basandosi su un sistema assurdo che si basa sulla ripartizione “a campionamento”. La Siae dà per scontato che ad essere proposti durante le serate saranno i pezzi più in voga in quel momento. Senza farla troppo lunga in Siae danno per scontato che si tratti sempre di cover band. Così negano la possibilità che esistano ancora autori e gruppi che producano e suonino pezzi in proprio. In questo modo ti tolgono quei 120 euro in media a concerto che invece di entrati in tasca vanno ad ingrassare i maggiori editori o autori. Questo accade perché il regolamento Siae stabilisce in quale percentuale vadano letti i borderò e quali forniscano la base dei campionamenti. I meccanismi sono più complicati, ma da un certo punto di vista perfettamente a norma. Ingiusti ma a norma. Non è una questione di sciatteria. La Siae è controllata dagli editori e dagli autori più potenti, si vota per censo, una roba medievale. Un voto ogni euro incassato. È qualcosa che va molto oltre il lobbismo, proprio perché sancito dai regolamenti.

Tu però sulla Siae avevi addirittura pensato ad una class action
Io voglio l’abolizione del monopolio, ma la class action che avevo proposto riguardava il sistema di ripartizione degli utili dei concertini, un obiettivo molto più concreto e alla portata dei piccoli autori

Sempre su Facebook hai anche creato un polverone evidenziando come in Italia siano solo 50 artisti a percepire cachet superiori ai mille euro. Cosa significa?
Ho fatto una suddivisone tra quelli che percepiscono qualcosa e quelli che lavorano solo per il rimborso spese, che sono il 99,9%. Siamo in una situazione di monopolio e blocco totale del sistema. L’esito non è solo un mondo musicale sempre meno fertile sul fronte degli autori ma anche dal punto di vista dei locali. È una situazione che li uccide. Sia chiaro: per dieci anni ho organizzato oltre 300 concerti. Non parlo a vanvera. Mi lamento come promoter. Io il locale l’ho dovuto chiudere. Perché da una parte ci sono gli artisti fuori target per i locali, per via del cachet, i famosi 50, anche se stanno diminuendo di numero. Fra quelli rimanenti non tutti sono operativi nello stesso anno, perché molti sono fermi per fare dischi, quindi la scelta finisce per essere limitata a una quindicina di gruppi.

Sta tornando anche la vecchia diatriba mainstream versus indie. Qual è la definizione reale di queste due categoria e in cosa si differenziano?
Molti dicono che sia impossibile distinguere fra mainstream e alternativo, ma trovare una linea di separazione è facile se si guarda alla storia della radiofonia, un settore che è venuto prima della discografia. Il mainstream è la musica che sta bene nella radio commerciale, fra la pubblicità della carne in scatola e quella della carta igienica, perché va bene allo sponsor. La musica che si pone altre finalità rispetto allo stare fra due pubblicità è musica d’arte, quindi alternativa al sistema pubblicitario. In italia non si usa più il termine alternativo, ma solo il termine indie, che non implica un’idea di differenza qualitativa, ma solo economica, in qualto può comprendere anche produzioni che vorrebbero stare fra due pubblicità, ma non hanno la forza economica per imporsi e questo rende ambigua tutta la faccenda. Sotto la stessa definizione c’è chi ha come fine quello di fare musica di qualità senza curarsi dei condizionamenti e chi vuole fare soldi con la sua musica, quindi disposto a venire a compromessi col sistema pubblicitario.

Una cosa che risulta evidente mainstream o indie non conta, è la mancanza di ricambio artistico. Forse l’unico motore a funzionare sono i talent show…
Il problema di cose come X Factor è che possono essere solo mainstream. Senza contare che anche il livello di quel settore è in continuo declino. La qualità è sempre peggio

C’è poi da ricordare che questi programmi tv producono esclusivamente cantanti e canzoni…
Si, i talent producono cantanti, ma non canzoni. Ma del resto Giorgia che canzoni ha? È il basso livello del repertorio dei cantanti mainstream che permette l’avanzata senza resistenze dei talent show

Un’altra grande diatriba è quella dei supporti. Siamo passati dal vinile alla cassetta, dal cd agli mp3. Oggi, un esempio è Spotify, non ci sono più nemmeno quelli. È tutto immateriale. Che si fa?
Si oggi non c’è più neanche il download. Non si fa proprio niente perchè è un falso problema. I supporti sono morti. Chiuso. È come per i terremoti e le inondazioni. Succedono e bisogna prenderne atto. Le innovazioni non si possono discutere né resistervi.

Thom Yorke dei Radiohead però se ne è andato da Spotify sbattendo la porta. Come si spiega?
Yorke dice una cosa vera ma su un’altra è evasivo. Brian Eno ha dimostrato che è vero il fenomeno per cui la spesa per i dischi è diminuita in Inghilterra. Ma quella per la musica invece è immutata. La crisi del settore riguarda l’industria discografica non la musica. I soldi oggi vanno direttamente agli artisti e alle persone che vengono pagate dagli artisti. Le case discografiche sono tagliate fuori. Una band infatti, avendo più soldi, può pagarsi ufficio stampa, grafici e tecnici in proprio. Il potere è passato agli uffici stampa. Di fatto le case discografiche sono state soppiantate.

Lo Yorke italiano sembra essere Manuel Agnelli che insieme a XL ha lanciato un manifesto. Che ne pensi?
È un’operazione di marketing squallida. Ma questa volta, mentre di solito ci sono solo io a far notare certe incongruenze, c’è stata una violenta reazione in molti settori del web. Il motivo è che il manifesto è basato sul concetto che se una cosa è valida è su XL e se non c’è, è perché non se lo merita. Ma visto che su XL non passa il 99,99% di quello che si fa in Italia, a livello di dischi, festival, etichette e uffici stampa, hanno finito per  offendere una marea di persone e, colmo dell’arroganza, senza minimamente rendersene conto. XL è un sistema chiuso, che si spaccia per alternativo, ma vive di pubblicità di ditte che con la musica niente hanno a che fare e sceglie in base a logiche di mercato che con la musica hanno poco a che fare. Per di più è evidente che la percentuale maggiore dei loro spazi è occupato da artisti che fanno capo alle solite agenzie e uffici stampa. Senza contare la denuncia alla politica che è dir poco grottesca se il tutto si materializza in un concerto al Traffic, o in altri luoghi istituzionali, che ovviamente si possono fare solo con fortissimo supporto politico, soprattutto se sono gratis.

E Manuel Agnelli?
Se Agnelli volesse fare una battaglia potrebbe fare quella contro la Siae. Ma non gli conviene. Mi sembra chiaro che il problema non è creare un’alternativa musicale ma prendere il posto di Ligabue…

Quello che è certo è che il manifesto è effettivamente un po’ moscetto…
Se vogliamo essere gentili. È credibile uno che ti esorta ad uscire di casa per andarlo a sentire una volta l’anno? Avesse almeno chiesto alla gente di andare alle centinaia di concerti che ci sono in giro ogni sera. Ma di quel mondo XL non parla e non sa nulla e quindi non esiste e non vale la pena.

E tu invece, che fai per cambiare le cose?
Voglio fare grandi dischi, buona musica, possibilmente a livello internazionale. Se vuoi creare dell’arte che abbia un senso non puoi fare gli studi di settore. Devi avere un’idea da portare avanti. Ma io, e tutti quelli che ci provano, mi trovo ogni volta davanti ad un muro fatto di marketing e pubblicità.

Muro che dovrebbe essere una macchina da soldi e invece partorisce i topolini. È curioso no?
Per forza, è una macchina economica basata sulla vendita di qualcosa che non c’è più. i dischi. Le major finiranno a gestire 15 vecchi artisti e qualche vecchio catalogo.

Adesso siamo a un passo dalla querela, puoi ancora renderla una certezza. C’è qualcosa d’altro che vuoi dire?
No dai, va bene così

Di solito dedichiamo qualcosa ai lettori. Questa volta potremmo dedicare una canzone a Manuel Agnelli…
Bè, senza dubbio “We can work it out”, dei Beatles

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