Responsabilità sociale d'impresa
La multinazionale e le nostre magliettine a tre euro
La vicenda della quotazione alla borsa di Londra del colosso cinese del fast fashion Shein riaccende il faro sulle sorti degli Uiguri, nella regione del Xinjiang, dove si produce il 20% del cotone mondiale. Il caso aiuta a ricordare l’importanza della sostenibilità sociale in un momento in cui sembra che parte del nostro mondo ne voglia fare a meno
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Comprereste mai una magliettina a tre euro sapendo che è stata sicuramente prodotta con un lotto di cotone lavorato da schiavi in una parte neanche troppo remota del mondo? La domanda può suonare retorica ma non lo è. Perché se è vero che tutti (almeno si spera) risponderemmo di no, all’atto pratico, la certezza che l’abbigliamento low cost, e non solo, sia rispettoso dei diritti di chi lavora lungo la filiera della moda, dalla produzione alla distribuzione, non può esserci sempre.
Senza freni
Obiezione: ma, allora, ogni volta che compro qualcosa per vestirmi devo scaricare il qr code dell’etichetta e magari leggere un trimestrale di geopolitica per essere proprio sicuro che non ci siano notizie di nuove violazioni dei diritti in giro per il mondo? Molto più facile seguire il primo che arriva e dice: «Comprate la maglietta che volete!».
C’è storia
Per evitare tutto questo gioco, che poi non è per niente un gioco, negli anni è stata “inventata” quella che oggi chiamiamo sostenibilità. Un tempo non se ne occupava nessuno, a parte la Chiesa, con la sua Dottrina sociale. Poi, come sappiamo, l’obiettivo della giustizia sociale è stato inseguito – con alterne fortune – anche da altre scuole. A tutto ciò si è unita la questione ambientale che poi ha finito per prendere il sopravvento rispetto alla prima.
Quali regole
Ora siamo in un momento in cui tutto, dall’America all’Europa, sembra essere messo in discussione. È importante quindi tornare al cuore della questione e chiedersi perché esistono delle regole, degli accordi e degli obblighi di rendicontazione di chi si prende la responsabilità di costruire imprese, anche molto grandi, per produrre i beni e i servizi di cui tutti abbiamo bisogno.
Questo non significa illudersi che sia sufficiente porre delle regole una volta per tutte.
Ci sono interessi, visioni del mondo e concezioni dell’economia molto diverse tra loro che si fronteggiano nei mercati. E che possono dare vita a norme liberticide da un lato, o lassiste dall’altro. Senza offrire la tanto desiderata certezza sugli standard di rispetto e qualità. Quindi i problemi rimangono. Come mostra, ad esempio, il nuovo capitolo della storia di Shein, colosso mondiale del fast fashion con base a Singapore, situata di fatto in Cina.
Listino incerto
Racconta l’agenzia Reuters che il progetto della società di quotarsi alla borsa di Londra rischia di subire un nuovo stop. Il movimento Stop Uyghur genocide che si batte contro il lavoro forzato in Cina ha infatti annunciato di voler chiedere una revisione giudiziaria dell’offerta pubblica iniziale (Opa) – il primo atto verso la quotazione – qualora l’autorità di regolamentazione britannica (la Financial conduct authority) la approvasse.
Campi di lavoro
Il gruppo afferma che la catena di fornitura del rivenditore in Cina include cotone prodotto dal lavoro forzato degli Uiguri. Parliamo della popolazione musulmana che vive nella regione dello Xinjiang, dove si produce circa il 20% di tutto il cotone mondiale. Da anni si raccolgono indizi sull’esistenza di campi di rieducazione e di lavoro forzato. Anche il governo degli Stati uniti lo afferma, mentre la Cina nega qualsiasi abuso.
Notizie ufficiali
Il sito della Shein, al pari di qualsiasi sito di qualsiasi azienda, riporta i meravigliosi progressi fatti nel campo della sostenibilità dal gruppo, in particolare nello studio dei materiali, anche se non fa cenno alla questione specifica. Ha comunque affermato più volte di vietare il lavoro forzato nella propria catena di fornitura e, ricorda sempre la Reuters, ha comunicato ai legislatori britannici di consentire l’uso di cotone proveniente da regioni approvate, che non includono la Cina, esclusivamente per i suoi prodotti venduti negli Stati Uniti. Questo per rispettare l’accordo che proibisce l’importazione di prodotti fabbricati nello Xinjiang o prodotti da aziende designate e vietate, chiamato Uyghur forced labour prevention act – Uflpa. Non è noto se la stessa scelta valga anche per l’Inghilterra.
Come andrà a finire
Non è poi detto che l’iniziativa del gruppo pro Uiguri possa effettivamente rallentare o bloccare il procedimento della quotazione prevista, secondo i rumors, nella prima metà del 2025. Anche perché non esiste una norma specifica che vieti la quotazione in borsa a chi esporta cotone dalla regione dello Xinjiang. Ma è chiaro che se nell’istanza per la quotazione emergessero circostanze controverse, l’azienda potrebbe essere accusata di aver nascosto dei rischi materiali, compromettendo la propria stabilità. Con conseguenti e inevitabili riflessi finanziari.
La nostra responsabilità
Va inoltre ricordato che la Shein non è l’unica azienda al mondo ad essere esposta a questo rischio, dal momento che in quella regione viene prodotto circa l’80% del cotone cinese che, come detto, vale un quinto della produzione mondiale di cotone. Evidentemente, qualcun altro, nel mondo, questo cotone lo utilizza per produrre vestiti. E qui torniamo alla nostra domanda non retorica sulla magliettina da tre euro e all’importanza della sostenibilità. Tra il mettersi le fette di salame sugli occhi e credere che un sistema di regole garantisca la società perfetta, il fatto di affrontare seriamente i temi della sostenibilità può aiutare a creare quello spazio perché i singoli, le società e, in prospettiva il mondo, siano aiutati a prendersi le proprie responsabilità, con piena soddisfazione.
Foto di Artificial Photography su Unsplash
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