Ssono stato invitato a parlare in un collegio universitario femminile. L’organizzazione interna rispecchia i principi sui quali si fonda: la retta da pagare è relativamente bassa anche perché sono le studentesse stesse ad occuparsi di alcuni servizi della casa; le camere sono decorose, ma non lussuose; il gruppo dirigente si accontenta di uno stipendio “simbolico”. Il modello funziona, molto bene. Ma non può essere per tutti!
Nel 2006 e poi nel 2009, Philanthropy ha intervistato 192 segretari generali di diverse aziende non profit. È emerso che tre quarti di essi non credeva che cinque anni dopo avrebbe fatto lo stesso lavoro, e il 49% degli intervistati si dichiarò insoddisfatto del proprio stipendio. In effetti, le frustrazioni legate a questo lavoro, insieme alla mancanza di supporto e alla retribuzione molto bassa, esasperano un ruolo che è molto difficile ricoprire anche nelle circostanze più favorevoli. Lo stesso studio rilevò che quasi due dirigenti su tre ritenevano di aver fatto un enorme sacrificio economico decidendo di lavorare nel settore non profit; in una scala da 0 a 6, il 39% dei dirigenti di età inferiore ai 40 anni dava un 6 al proprio sacrificio, lo stesso voto dato dal 37% dei loro colleghi quarantenni e dal 32% dei colleghi cinquantenni e sessantenni.
Il professor Borzaga afferma a più riprese che il settore non profit può vantare la forza lavoro più motivata in assoluto, che ogni mattina va al lavoro con la consapevolezza di poter fare qualcosa per cui valga davvero la pena di impegnarsi. Tuttavia questa forza lavoro non può essere data per scontata, poiché sono oramai lontani i giorni in cui il non profit poteva contare su un costante flusso di nuove leve pronte a sopportare lo stress e la perenne carenza di risorse che contraddistinguono il lavoro nel non profit. Gli operatori, ora, hanno tutto il diritto di esigere di poter vivere e non sopravvivere.
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