Non profit

La montagna ti rimette a misura

Passioni e visioni del presidente del Club Alpino

di Sara De Carli

«Nell’epoca della tecnocrazia è metafora del limite, l’unica che ogni tanto ci ricorda che il limite è connaturato all’umano. Per questo dobbiamo esserle grati» È nato sul mare, a Savona, «là dove iniziano le Alpi». La montagna la ama fin da piccolo «in chiave estetica», giura lui. Annibale Salsa è antropologo e dal maggio 2004 presiede il Club alpino italiano, «un’associazione della montagna» (ci tiene a precisare) con 315mila soci e 146 anni di storia.

Vita Una passione in chiave estetica, a 6 anni?
Annibale Salsa: Sì, e geografica. Mi piaceva collocare geograficamente le montagne. E poi esplorativa, camminavo per scoprire cosa c’è dall’altra parte. Il Cai d’altronde è nato proprio da questa spinta esplorativa. L’alpinismo è figlio dell’illuminismo, non del romanticismo. A fine Settecento, la salita sul Monte Bianco fu fatta per dimostrare che sulla cima non c’erano né diavoli né streghe.
Vita: Cos’è per lei la montagna?
Salsa: Un elemento di fascinazione. La montagna non è un idillio, sento un’insopportabile retorica alla Heidi, ma chi fa retorica non conosce la montagna. La fascinazione, diversamente dal fascino, ha l’ambivalenza dell’attrazione e della paura: nell’epoca della tecnocrazia la montagna è metafora del limite, l’unica che ogni tanto ci ricorda che il limite è connaturato all’umano.
Vita: Troppi sprovveduti in montagna?
Salsa: Al Cai i soci giovani sono in crescita, ma lo dico sinceramente: oggi c’è un eccesso di sportivizzazione e tecnicismo che non favorisce il rapporto con la montagna. L’approccio sportivo, performante, genera solo un interesse momentaneo: finché sono atletico va bene, quando non ce la faccio più la montagna la abbandono. Chi ama la montagna invece continua a viverla ad ogni età, al limite da contemplativo. Oggi si va in montagna per sciare o per arrampicare, non per la montagna. Io vorrei traghettare il Cai verso una visione a 360 gradi della montagna, perché il Cai non è una federazione alpinistica ma un’associazione della montagna. Chi vuole fare sport vada in uno sci club, non al Cai.
Vita: L’alpinista e il montanaro avranno sempre visioni diverse?
Salsa: Certo, ma le due visioni si possono avvicinare. Il Cai dovrebbe essere il mediatore tra le due esigenze, spazio di un’allenza tra città e provincia, pianura e montagna.
Vita: Quali sono queste esigenze differenti?
Salsa: Oggi c’è un interesse per il vivere in montagna che vent’anni fa non c’era, un neo-ruralismo a cui però non corrisponde un sostegno nuovo. Il montanaro invece è sfiduciato e nutre un rapporto di amore/odio verso la montagna, con il rifiuto della condanna a vivere una vita ai margini. Ma questa è una scelta, non una necessità.
Vita: Perché?
Salsa: In Italia c’è una cultura urbanocentrica che guarda sempre la montagna come spazio marginale e periferico, subalterno, come cordone confinale.
Vita: Cosa servirebbe oggi?
Salsa: Serve una volontà politica di promuovere un ritorno alla montagna in termini di abitabilità, perché altrimenti ci ridurremo al ritornello del come è bella, com’è nobile, com’è catarchica la montagna. Serve una politica delle qualità, poiché i prodotti della montagna sono di qualità superiore e quantità inferiore, il km zero, la filiera corta. E poi l’acqua, di cui i montanari sono custodi: non possono alienarla ad altri. E la scuola. E i trasporti: ha mai provato ad andare con un mezzo pubblico in un paese della Valtellina?
Vita: Lei ha scritto un libro sul tramonto dell’identità tradizionale nelle Alpi. Come è cambiata?
Salsa: L’identità è sempre in movimento. Il tipico non esiste, però nella società globalizzata entrano con grandissima forza modelli di tipo metropolitano. Non è un male che entrino, il punto è come. Purtroppo il bipolarismo tra montagna e pianura ha fatto sì che tra i giovani ci sia un rinnegamento dell’identità tradizionale e un innamoramento, o meglio una assunzione passiva, dell’identità esterna, senza una mediazione. In altri Paesi invece, anche più globalizzati dell’Italia, non c’è stata questa contrapposizione culturale.
Vita: Dove la metabolizzazione c’è, cosa ha portato?
Salsa: Vada in Alto Adige, in un maso tirolese: il contadino le metterà a disposizione, con pari orgoglio, lo speck e la spa. L’elemento che consente di fare la mediazione è il modello culturale: quello latino, lo ripeto, ha sempre visto il contadino come marginale, mentre nella tradizione germanica è il contrario, tant’è che in Austria il loden è potuto diventare trendy.
Vita: E dove non c’è stata?
Salsa: La Valtellina non è altro che la periferia di Milano. La questione è legata ai centri amministrativi: Oltralpe e in Alto Adige i centri ammnistrativi sono dentro le montagne, in Lombardia, in Piemonte e in Veneto fuori. Per questo il giovane valtellinese tende a trasferirsi a Milano, il suo vicino grigionese no. Il pastore da noi è visto come un cittadino di serie zeta, mentre in Francia ci sono scuole pastorali di livello universitario: il prestigio sociale è capovolto.
Vita: Non sono scelte obbligate da ragioni economiche?
Salsa: No, l’agricoltura e la pastorizia possono anche essere redditizie. La prova è che il discorso vale anche per il terziario avanzato: le nuove tecnolgie dematerializzate consentono di fare in montagna cose che nell’economia fordista non ci si poteva neanche sognare di fare.
Vita: Ha scritto che dietro i balconi fioriti delle Alpi si nasconde il disagio esistenziale dei giovani. L’alto tasso di suicidi in Valtellina ne è una prova drammatica. Qual è la matrice di questo disagio?
Salsa: All’opposto di quel che accade nelle culture mediterranee, qui si cura molto l’esterno, ma c’è un problema di isolamento e di solitudine. L’individuo è messo di fronte a se stesso e ciò genera disagio esistenziale. In passato però esisteva una socialità di villaggio molto più accentuata, come nell’Africa subsahariana, con una comunità che mette in atto la “terapia della solidarietà”. Le feste africane, come quelle alpine e del mondo nordico, hanno la funzione di essere un dispositivo simbolico che assorbe a livello comunitario il disagio del singolo. Oggi invece feste comunitarie nelle valli non ce ne sono più: c’è la discoteca e ci sono le messe-in-scena per i turisti, la folklorizzazione della cultura popolare, che ovviamente non essendo più autoreferenziali non sono più terapeutiche.


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