Economia

La moda etica di Endelea, fra Milano e Dar es Salaam

Francesca De Gottardo ha 35 anni ed è CEO di Endelea, una società benefit che ad oggi dà lavoro a 12 sarti in Tanzania. Tutto inizia con una gonna che si era fatta cucire in Africa dal sarto del villaggio: «La stoffa era stupenda ma la gonna era immettibile: lì è nata l’idea di aggiungere una componente di design in linea con nostri gusti»

di Sara De Carli

l nome Endelea in swahili significa “andare avanti, continuare senza arrendersi”. Endelea è un brand di moda etica nato nel novembre 2019 con l’idea di creare collezioni di abiti e accessori in tessuti wax africani disegnati a Milano e realizzati a mano a Dar es Salaam, in Tanzania. È una startup innovativa e una società benefit fondata da Francesca De Gottardo e Serena Izzo: «Una società benefit perché la nostra volontà non era di essere una ong ma un brand di moda, però con il preciso intento, fin dal giorno uno, di mettere le persone al centro. La parte di società benefit era prioritaria anche quando Endelea era solo un’idea: una percentuale dissa delle revenues va a sponsorizzare progetti con l’università e le scuole di Dar es Salaam, da subito, senza guardare ai costi, anche adesso che siamo ovviamente ancora in perdita», spiega Francesca De Gottardo. Mentre le parliamo è in Tanzania per seguire il set up della produzione per la nuova collezione, fra riunioni con i legali e esplorazioni nei mercati per la ricerca di nuovi tessuti.

De Gottardo ha 35 anni, vive a Milano ed è originaria di Pordenone, ha una laurea magistrale in archeologia. La sua è una delle 25 storie di giovani imprenditori sociali che raccontiamo sul numero #3 di VITA, in distribuzione ancora per pochi giorni.

Come è iniziato tutto?
Io e Serena veniamo dal mondo moda, mi ci sono ritrovata dopo la laurea: comunicazione, social media, digital marketing… A 31 anni però mi rendevo conto che mettevo tantissime energie in qualcosa che non aveva impatto sulla vita delle persone. Avevo fatto un’esperienza in Africa, sentivo il bisogno forte ma personale di generare davvero un cambiamento, di aggiungere significato, di cercare di contribuire in positivo. Cercavo lo strumento per poterlo fare.

Perché quindi la moda?
Banalmente, io in Africa avevo acquistato una stoffa bellissima e mi ero fatta cucire una gonna dal sarto del villaggio. La stoffa era stupenda ma la gonna era oggettivamente immettibile: lì è nata l’idea di mettere una componente di design in linea con nostri gusti. Ho passato sei mesi a fare ricerche online nelle pause del lavoro, accorgendomi che il wax era un trend anche nell’alta moda: una conferma che la stavamo annusando giusta. Già nella collezione spring/summer 2021 introdurremo un nuovo tessuto, il Kikoi, un tessuto tipico tanzaniano, un cotone realizzato con un telaio a mano da una cooperativa di donne: l’obiettivo è proporre al nostro pubblico un prodotto molto di valore, che impatta davvero a livello sociale sul territorio oltre ad essere un prodotto unico, che nessuno ha e che racconta una storia stupenda: una co-creazione di valore, senza cultural appropriaton, siamo molto molto attente su questo. Sarà un test, se funziona andremo molto più in questa direzione.

Quante persone lavorano grazie a Endelea?
In Tanzania 12 sarti fissi con noi, per l’85% donne, più altre professionalità al bisogno: lo stylist, la fotografa, le modelle. In Italia la startup non ha dipendenti, è stata autofinanziata fino a sei mesi fa: ci lavoriamo noi tre soci – io, Serena Izzo e mio fratello Andrea – e altre 12 persone freelance. Siamo partiti con 19mila euro, l’anno scorso abbiamo fatturato 62mila euro. A fine 2020 abbiamo chiuso il primo round di funding.

L’impatto sociale qual è?
In Tanzania abbiamo da poco avviato le procedure per diventare partener ufficiale dell’Università di Dar es Salaam. L’anno scorso con una scuola di una designer abbiamo finanziato otto borse di studio e otto workshop per portare competenze sull’industria della moda, abbiamo conosciuto ragazzi con buone idee che da YouTube e Instagram hanno imparato a cucire, ma mancano le competenze per diventare imprenditori della moda. Abbiamo registrato una società anche in Tanziania, per rendere più solido il nostro impatto lì e ufficializzare il nostro impegno nel Paese. Abbiamo contratti registrati per le sarte, diamo un pasto gratuito pagato, l’assicurazione sanitaria, lo stipendio è del 40% superiore alla media tanzaniana, il posto di lavoro è safe e raggiungibile da tutti. Stiamo facendo crescere ragazze che abbiamo conosciuto come sarte e oggi sono la director e la segretaria dell’azienda. Nel nostro team ci sono già ex studenti della scuola: i sarti sanno già fare il mestiere di sarti ma noi cerchiamo di portare competenze magariali, i cartamodelli, il ready to wear… un percorso di traning on the job di cui dopo un anno vediamo già i risultati, adesso loro stanno già insegnando ad altre ragazze…

Chi e cosa è stato determinante in questo percorso?
Le persone incontrate qui, che si sono messe in discussione e hanno accettato di reimparare un lavoro. Una buona dose di ottimismo e coraggio, mio personale, che forse un po’ è anche mancanza di consapevolezza: quello slancio ed energia di rischiare, che mi ha fatto prendere da sola un aereo per la Tanziania e il giorno dopo il mio rientro licenziarmi da un lavoro a tempo indeterminato in una grande azienda di moda… Ma l’ottimismo da solo non basta. Ovviamente quindi sono stati determinanti i miei soci in Italia, con la loro razionalità. Fin qui ci siamo arrivati con le nostre forze. Fare una startup è come fare un figlio, se davvero sapessi cosa ti aspetta forse non lo faresti… Siamo partiti come amici, poi ci siamo strutturati, anche grazie al percorso con a|cube, abbiamo imparato infinte skill che non sapevamo nemmeno che ci sarebbero servite. E oggi sono CEO di due società.

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