Mondo

La mia storia di inviato stregato dai cooperanti

E' giornalista di punta di Io Donna, il settimanale del Corriere. In questi anni ha raccontato le situazioni più calde del mondo

di Redazione

In trent’anni di giornalismo non avevo mai scritto un articolo in prima persona. Ci volevano i “diplomatici del terzo millennio” per convincere un cronista di lungo corso, per di più figlio di un vecchio e tradizionale diplomatico con feluca, a trasgredire a una consolidata – e comoda – abitudine. E allora: partiamo con le confessioni. Che, come accade spesso, hanno radici nell’infanzia. Un’infanzia, la mia, dominata dalla “carriera”, termine imperativo ed esclusivo con il quale – non ci sarebbe bisogno di ricordarlo – i diplomatici chiamano il loro mestiere. Si cresce respirando un comandamento non scritto, addirittura mai dichiarato apertamente, ma ineluttabile: solo pochi hanno il privilegio di fare la carriera, gli altri poverini… La scoperta della mia vita La scoperta che gli altri esistono e possono persino svolgere un’attività internazionale che li porta a conoscere gente nuova, a scoprire in anticipo storie, situazioni, equilibri e giochi di potere; un’attività che per di più – incredibile – li mette talora anche in condizione di cercare con le proprie forze di dire la propria, di fare qualcosa – insomma: la possibilità di incidere – è stata la scoperta della mia vita. Per me, fu il giornalismo, scelta di cui ancora oggi non mi pento. Ma scelta, ancora una volta, di casta. Che viaggi in business class o in economica, che si muova con un gruppone di colleghi o in solitario, il giornalista è quasi sempre accudito. Talora rudemente. Il cordone sanitario può essere ghettizzante e persino violento o, invece, mielato e pieno di coccole. Ma fa poca differenza: il giornalista, per quanto possibile, va sempre tenuto sotto controllo. Ma il giornalista, comunque, avrà sempre un vantaggio sui suoi controllori. Per il semplice fatto che viaggia e vede. E viaggiare fa bene, perché si conoscono un sacco di persone. Quegli strani italiani Erano i primi anni 80 quando, corrispondente e inviato all’estero, scoprii che c’erano in giro per il mondo degli strani italiani. Lavoravano per organizzazioni umanitarie dalle curiose sigle. Avevano insoliti contratti a termine. Guadagnavano poco. Questi strani personaggi – cooperanti, volontari e quant’altro – si tenevano solitamente lontani dalle comunità italo-locali (mi stava per uscire l’antica parola colonie: in alcuni salotti e uffici viene usata ancora, credetemi) che, più o meno, ruotano da sempre attorno ad ambasciate e consolati. Raramente li si vedeva ai buffet ufficiali. Alcuni erano medici. Altri infermieri. C’era qualche ingegnere e architetto. Parecchi erano tecnici: geometri, elettricisti eccetera. Ma i più, come anni dopo mi spiegò il dirigente di una ong, erano sostanzialmente giovani (di primo ma, soprattutto, di secondo pelo) le cui principali qualifiche erano «il disagio verso la banale normalità del quotidiano, verso il codificato lavoro di routine, assieme alla voglia di fare qualcosa di diverso». Parlavano tutti almeno l’inglese, cosa che non sempre mi capitava di trovare tra gli italiani all’estero. Mi piacquero e indagai. Scoprii, così, altre cose. Una, in particolare, mi colpì. I diplomatici italiani, quelli veri, erano e sono in tutto circa 900. Di questi più di un terzo è in sede a Roma. Quindi, a rappresentare l’Italia nei vari Paesi, ce ne sono più o meno appena 600. Di questi (e spero che nessuno alla Farnesina mi legga in questo momento) solo ambasciatori e consoli contano qualcosa. E nemmeno sempre. Gli altri – ministri plenipotenziari, segretari d’ambasciata eccetera – si ha come la sensazione che facciano da corollario burocratico, da segreteria amministrativo-impiegatizia del capo missione. I volontari e i cooperanti mi colpirono per tre motivi. Primo: mi dettero subito l’impressione di contare tutti, ognuno per quello che faceva. Dal capo missione al logista, al distributore di razioni alimentari o di aiuti vari: tutti avevano un contatto diretto con la popolazione con cui entravano in contatto. E questo contatto sul campo era fatto di cose vere, magari piccole ma che lasciavano un segno. Secondo: anche se le cose che facevano erano – e sono – fatte per lo più grazie a fondi e finanziamenti di organismi internazionali (Unione europea e Onu in prima linea), loro erano – e sono – vissuti dalla popolazione locale come italiani. Quello che fanno, quindi, alimenta l’immagine dell’Italia nel mondo. In alcuni Paesi con i quali Roma non ha rapporti diplomatici ufficiali sono le ong a fare da ponte. Grande responsabilità, certo, perché se le cose che fanno fossero sbagliate… Terzo: a fronte degli appena 600 diplomatici all’estero, i volontari delle ong che, in ogni momento dell’anno, lavorano in qualche Paese straniero sono (secondo un mio calcolo a spanne) sui 2.500-3.000. Ebbi un flash: «Ma questi sono i nuovi diplomatici». Purtroppo lo pensai soltanto, senza scriverlo. Così, quando anni dopo lessi che qualcun altro se ne era uscito con questa definizione, mi restò il rimpianto di non averci messo in tempo il sigillo. L’epoca degli scandali Vennero i primi anni 90, con gli scandali della cooperazione. Contribuii anche io alle campagne di stampa dell’epoca: alcuni miei articoli, per i quali non ebbi smentite, misero nei guai certi ambasciatori e dirigenti del ministero, finiti a fare i conti con la giustizia. Le ong, è storia di ieri che tutti conoscono, risentirono dello scandalo e della stretta dei canali di finanziamento. Poi, sul finire degli anni 90, i casi della vita mi portarono a fare l’inviato nella redazione di un femminile: Io donna, supplemento del Corriere della Sera. Conobbi così un direttore, Fiorenza Vallino, che – assolti gli obblighi legati a quanto si presume debba esserci in un femminile – aveva e ha un forte interesse per il sociale. Fu così che potei vedere le ong all’opera: per raccontare cosa facevano e come. Un salto di qualità Nel decennio da quando avevo sentito parlare di loro per la prima volta, le ong avevano fatto un salto di qualità. Tanto per cominciare, nel campo della formazione, la loro formazione: adesso in giro per il mondo, assieme alla linfa sempre vitale dei disadattati (mi perdonate il termine, detto con affetto?), ci sono giovani che escono da appositi corsi universitari e post-universitari, che hanno deciso di fare del volontariato internazionale il loro mestiere. Poi in quello dell’informazione: sempre più le ong si rivelano preziose fonti di dati, di storie. Sempre più sono in grado di fare da cartina di tornasole, di gettare l’allarme sui fatti nuovi del pianeta che i grandi media ignorano o danno in poche righe. Tutte cose che un giornalista, alle prese con la melassa di certi uffici stampa istituzionali, apprezza moltissimo. Poi, ancora, ci sono i miglioramenti organizzativi. Qualcuna di queste ong, fatta esperienza di Tangentopoli, ha i conti talmente in regola da avere vinto l’Oscar di bilancio di Assolombarda e del settimanale Il Mondo. Infine, fondamentale, c’è l’aspetto del coordinamento. Le ong sono diventate “rete”, un network capillare ed efficiente al punto, per esempio, da meritare lunghe e attente inchieste sulla prima pagina di Le Monde, quotidiano che non si spreca mai per caso. E di allarmare qualche potente di Bruxelles, che – di fronte a un potere in crescita – ha alzato le barricate, preoccupato di perdere terreno nel campo della politica estera. Che bello, arrivano le ong Questa rete comincia davvero a funzionare, implementando quella ufficiale. In un Paese del terzo mondo in cui era stata appena firmata la pace dopo una sanguinosissima e devastante guerra e dove le ong stavano accorrendo, la moglie intelligente di un ambasciatore intelligente (ce ne sono) se ne è uscita con la seguente frase: «Che bello che arrivino le ong! Così possiamo fare un sacco di cose, che altrimenti…». Bene: le ong mi piacciono sempre di più. Il bello degli innamoramenti in tarda età, però, è che, se si ha un minimo di intelligenza, ci si riesce a innamorare senza avere gli occhi foderati di prosciutto. Delle ong ho individuato qualche difetto. Non è il fatto che siano tante, qualcuno dice: troppe. Né che siano divise in infinite scuole di pensiero e di ideologia. Questa mia obiezione è stata messa a tacere, tempo fa in Eritrea, da un cooperante “di sinistra”: «Vuoi farci mettere tutte insieme? Non è che unendo tanti gatti ne tiri fuori un leone. Resteranno sempre tanti gatti. Ed è giusto. Siamo espressione delle più diverse voci della società civile, anche di quelle più flebili». D’accordo, allora. Il difetto non è nemmeno nel fatto che, girando, ho fiutato ancora qualche personaggio vecchia maniera: sguardi furbeschi, modi subdoli e capelli unticci stile Prima Repubblica. Non è gente che lavora per le ong, certo, ma è gente con cui le ong devono fare i conti. Pazienza, capisco anche questo. In prima persona No, quello che – secondo me – non va è che, fra di loro, le ong sono litigiose o, quanto meno, sospettose. Il che, rispetto alle consorelle straniere, le rende deboli. Adesso, è vero, hanno dato vita a un’associazione-ombrello che, continuando a rispettare le singole autonomie e le differenti “confessioni”, dovrebbe parlare con una voce sola, almeno nei momenti di confronto più decisivi con le cosiddette autorità. Vedremo se funzionerà. Questa sterminata confessione andrebbe chiusa qui. Ma, siccome faccio il giornalista e i giornalisti – si sa – sono un po’ pettegoli e maligni, non riesco a tenermi nella tastiera una battuta finale. C’è un’altra cosa che, da professionista delle parole, contesto alle ong: lo stile di scrittura dei suoi operatori. Le storie che raccontano sono, ripeto, preziose documentazioni. Sono bellissime, anche e soprattutto quando parlano di vicende dolorose o raccapriccianti. Ma – per fortuna con molte eccezioni – sono troppo spesso scritte in uno stile sconfortante che ormai mi sono rassegnato a definire “alla volontario” o “alla Mater Dolorosa”: dettagliati resoconti che però, prima della vicenda che si vuole raccontare, testimoniano della (per carità: comprensibile) sofferta partecipazione all’evento. «Sono andato a portare una stufa a Fathia, per i suoi bambini infreddoliti che piangevano». «Abbiamo incontrato Walid e la sua gamba mutilata da una mina ci ha lasciati, ancora una volta, senza fiato». «Ahmed ci guarda con i suoi dolcissimi occhi lacrimosi, che ci stringono il cuore». Tutto, erroneamente, in prima persona. Come questo articolo.


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