Famiglia

La mia politica ultimista

Ex vicesindaco di Perugia,ha lasciato la carica dopo due anni."Chi vive un disagio si àncora alla realtà,fa progetti e battaglie impopolari.I politici? Al massimo hanno buon cuore"

di Susanna Battistini

Non fugge Clara Sereni. Non è mai fuggita dalla sua storia di intellettuale impegnata in prima persona coniugando sempre verbi al presente e al plurale; meno che mai fugge dal suo essere madre, ?madre handicappata? come ama definirsi da quando decise insieme ad altri intellettuali di far conoscere la loro condizione di familiari alle prese con problemi di handicap (la Sereni ha un figlio psicotico) nel libro collettivo ?Mi riguarda?.È fuggita, invece, dal ruolo prettamente politico che l?ha vista protagonista come vicesindaco al comune di Perugia per due anni (dal ?95 al ?97).L?abbiamo incontrata per cercare di capire questo allontanamento che al primo sguardo, ma solo al primo, può suonare come un lasciare la presa, ma che, ad una seconda lettura non superficiale, comprendiamo essere stata anch?essa una scelta politica, di quella idea di politica che – da sempre nella vita della Sereni – fa rima con società civile, dove la sfida alla complessità del vivere è una sfida da coniugare al plurale, vale a dire che la chiave per rendere concreta un?utopia sta nell?applicazione di un fare condiviso e nel ribaltamento di una prospettiva: rendere soggetti attivi e non solo oggetti passivi quella folla silente e scomoda che sono gli esclusi: «Parlo degli ultimi», scrive la Sereni nel suo ultimo libro ?Taccuino di un?ultimista?, dove sono raccolti una serie di scritti dedicati alla sua esperienza di vicesindaco. «Quelli che per restare al mondo hanno bisogno di un piano, un progetto, un sostegno, una speranza. Parlo dei tantissimi cui devolviamo un obolo, privato se versato per beneficenza o pubblico se assegnato come assistenza. Un obolo assai oneroso, comunque». Un punto, questo del rischio dell?obolo, che ritorna spesso nel suo libro. In particolare quando parla del binomio esclusione-inclusione, tocca un nervo scoperto del corpo che dovrebbe caratterizzare una società civile: dare diritto di cittadinanza a tutti, creando «una rete di reciprocità che garantisce comunque relazioni, sostegno, valore della persona». Eppure, questo coinvolgimento a volte dai soggetti in questione è visto come insufficiente. Come a dire: se ci pensiamo noi, lo Stato se ne lava le mani. «Lei tocca il problema assai complesso del mondo del volontariato. Intanto, il fatto che esiste questo mondo indica che, malgrado la gente non vada più a votare, non è vero che questo sia un paese ripiegato sull?egoismo e l?individualismo. Evidentemente non si vede più un progetto politico entro il quale incanalare l?altruismo. E poi io sono ormai convinta, anche dopo l?esperienza al comune di Perugia, che la riforma dello stato sociale – quando finalmente si smetterà di parlare solo di riforma delle pensioni – significa che comunque sempre più gli enti, le istituzioni devono separarsi dalla gestione ed esercitare attività di programmazione e di verifica». Che in pratica vuol dire? Premesso che questo che sto dicendo è vero in tutti i settori sociali, dove nella maggior parte dei casi si ha bisogno di progetti personalizzati e articolati – perché se sono massificati non sono progetti – qual è il nodo da sciogliere, l?ossessione che ho da un paio di anni? Trovare una nuova forma in cui si possano creare strumenti certi e condivisi per la valutazione della qualità degli interventi: ma tutto ciò è possibile se anche i cittadini si fanno, con brutta parola, attori di progetto, se si cambia mentalità. Quando parla di cittadini, oltre a riferirsi a tutta la comunità, si riferisce a qualcuno in particolare? Deve cambiare la mentalità di chi ci governa, del singolo cittadino, ma a me interessa molto la posizione di chi vive in prima persona un disagio. Bene, se la funzione dei familiari di una persona con problemi è quella del lamento o della richiesta sindacalizzata che poi si somiglia molto, si va poco lontano. Se la mentalità è quella della proposta il tutto assume un altro significato. Prenda il mio caso: se il progetto di vita per mio figlio e per altri dieci lo faccio io, tu Stato, comune, regione mi dai risorse per portarlo avanti e verifichi che questo progetto funzioni. È chiaro che se non hai uno strumento di verifica, la pagliuzza è dietro l?angolo. Io, però, lo ripeto credo che non ci sia altra via di uscita. Secondo lei, quanto può pesare la concezione individuale del singolo cittadino di fronte a un progetto simile? Per spiegarci, la sua posizione, forse, potrebbe essere diversa da un credente? Certo, io non mi ritrovo nella concezione per cui se ti capitano le disgrazie è una benedizione del Si gnore, ma rispettando questa visione, mi vien da dire che quando ti trovi a vivere certe esperienze, queste danno l?agio di un radicamento forte nella realtà; questa cosa banale, per cui capisci che se non cambia un po? il mondo, per questo tuo figlio o familiare, non c?è possibilità, beh, diventa un punto di vista molto forte, condivisibile. A proposito delle sue dimissioni lei scrive: ?Ingenuamente, all?atto dell?accettazione dell?incarico avevo addirittura immaginato che fosse un punto simbolico rilevante che una madre handicappata quale io sono potesse entrare nella stanza dei bottoni, uscendo da quel ghetto domestico di sofferenza vergogna ed eroismo che normalmente compete a quelle come me: un atto dotato di senso utile per le altre anche se scomodo per me?. Perché ciò non si è verificato? Per una serie di fattori che mi hanno sfiancato. Ho fatto battaglie impopolari che ho vinto – questioni relative al ruolo delle donne, alle banche del tempo e agli appalti per le cooperative sociali di tipo B, quelle composte per almeno il 30% da persone in difficoltà – ma che, all?interno dell?amministrazione, mi hanno portato via via all?isolamento. E se sei solo, e per giunta donna, non ce la puoi fare. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, quella che non mi ha fatto dormire per tre notti è stata la questione della quota aggiunta per le donne che è nello statuto del comune di Perugia. Questa cosa stava sparendo dal venerdì al lunedì, perché ufficialmente dicevano: ?È umiliante dire che gli diamo un terzo, noi gli diamo le pari opportunità?. Che poi questo accadesse quando c?era un rimpasto di giunta era del tutto casuale! E che avvenga in un partito della sinistra, senza consultare nessuno mi fa particolarmente male. E questo vale anche per la modalità degli appalti: che so, ci sono 36 miliardi da gestire, l?atteggiamento di pragmatica era ?ma sì vabbe??, si va alla trattativa diretta?. Ecco, se c?è un minimo comune denominatore alla mia delusione, è il rispetto delle regole che viene sempre infranto. Per una donna impegnata nel sociale come lei, è stato doloroso elaborare la ferita? Eccome. Ogni volta che si riapre questo canale viene fuori la rabbia che ho dentro. Da una parte, però, riesco ad elaborare questo ?lutto? credendo molto nella fondazione di cui mi occupo che, per me, ha una valenza politica forte. La politica deve offrire un punto di vista: non semplicemente quello del buon cuore, non semplicemente quello del volontariato, ma piuttosto quello che per far lavorare gli handicappati bisogna far lavorare tutti, però, si badi, gli handicappati (là dove è praticabile) devono lavorare per davvero. Insomma, è quello che si dice far diventare l?assistenza, nel rispetto delle libertà individuali, un lavoro di cura che spinga all?autonomia e non di custodia. E allora come fai a dire che questo non è un progetto politico? Ecco i nuovi progetti La fondazione ?La città del sole? di Perugia (tel. 075/5006858), istituita dalla Sereni con il marito, è un?esperienza di progettualità attiva. Tra le attività, un corso di formazione di musica, un progetto di turismo sociale per famiglie, una rassegna cine-musicale tenutasi in luglio a Cascia, che si ripeterà quest?anno, e il film di Daniele Segre ?Sto lavorando?, in cui vengono ripresi gli ultimi giorni di lavoro del figlio della Sereni. «Non si era mai voluto mettere una giacca e lanciava posate e piatti», racconta, «Ma nel lavoro di cameriere alla ?Cittadella? di Assisi ha imparato ad apparecchiare, a servire, a indossare giacca e papillon. Una grande svolta per Matteo e per noi. Ora mio figlio va ad Assisi in pullman da solo. Io sto in ansia, ma va bene: le ansie sono mie, i successi suoi».


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