Volontariato

La mia notte senza tetto

Non basta non avere casa per trovare accoglienza nel dormitorio .. il giornalista di VITA ha tentato di passare una notte con loro

di Daniele Biella

Ho deciso, questa notte vado a dormire al dormitorio di viale Ortles 69. Non ho alternative, e la pioggia battente mi convince a fare quel passo che avevo sempre rimandato. Per orgoglio, mischiato a vergogna. Mi avvicino alla grande struttura giallastra verso le 19, senza dare troppo nell?occhio, prima di entrare voglio saperne di più su cosa m?aspetta, una volta superata la porta d?ingresso. All?angolo della via c?è una donna mulatta che fuma una sigaretta, mi dice che dentro non si può fumare, e che anche l?alcol è bandito. Al primo sgarro, sei buttato fuori. Il sapere che ci sono delle regole mi rassicura.

Chiedi in Questura

«Ma tu ce l?hai il buono?», mi chiede la donna. No, certo che no, è la prima volta che vengo. Ho solo un documento e qualche spicciolo per i mezzi. Mi dice di andare dentro a chiedere informazioni, aggiungendo quella frase che mi assillerà per tutta la notte: «Non si può entrare così». Così come? «Senza aver fatto richiesta». La mia richiesta la sto facendo ora, dico all?addetto che mi riceve una volta varcata la soglia del dormitorio. Lui mi guarda sorpreso, e mentre grida contro qualcuno che vuole entrare prima dell?orario stabilito (le 21), mi dice che non funziona affatto così. «Devi andare nella Questura di via Fatebenefratelli, lì ti fanno il buono, poi torni qui ed entri gratis».

Bene. Dieci minuti di metropolitana ed eccomi davanti all?agente di polizia. Ma arriva il secondo rifiuto: «è da mesi che non rilasciamo buoni, quelli di viale Ortles lo dovrebbero sapere», dice la donna. Poi mi dice che per emergenze ne rilasciano uno a notte. Ma nella loro casistica di emergenza non rientro: nessun maltrattamento, nessun pericolo di vita. Sono solo un ?normale? senzatetto.

Il ritorno in viale Ortles coincide con due incontri: una coppia dallo Zambia, che in un buon inglese mi dice di avere da poco ottenuto l?alloggio, e Antonio e Luigi, italiani sulla cinquantina che entrano ed escono da una panda bianca parcheggiata all?entrata. È la loro macchina, che ogni sera lasciano qui, come molti altri. Era la loro ?casa? prima di trovare posto al dormitorio, dove ora sono ospiti fissi. Sono i fortunati che non hanno orari se non le 23 per entrare la sera e l?uscita entro la tarda mattinata, per non poltrire tutto il giorno. Loro un lavoro ce l?hanno, ma non guadagnano abbastanza per pagarsi un monolocale. Al dormitorio pagano un euro e mezzo a notte.

Niente da fare, amico

«Per quelli come te», mi dice Antonio, «c?è il progetto Emergenza freddo, non paghi niente e hai un letto caldo». Il problema, però, è questo buono che non riesco ad avere. Torno dentro al dormitorio, mi accoglie un altro funzionario, quello di prima non c?è più. Dice che il suo collega mi ha dato informazioni sbagliate.

«Il buono lo puoi fare domattina dalle 9 in poi, qui o alla stazione Centrale», spiega. D?accordo, ma per stanotte? «Niente da fare, amico, devi guadagnartela la notte al dormitorio». Poi mi spiega: regole che si sommano a trafile da fare, come visite mediche accurate (esami del sangue, polmoni in regola, vaccini) e colloquio con l?assistente sociale. Va bene, lo farò, gli dico, ma ora? «Non posso aiutarti, mi dispiace».

Rimango ancora qualche minuto nell?androne, ma l?aria si fa tesa, l?uomo minaccia di sbattermi fuori con la forza. All?uscita trovo tre persone che provengono dal Marocco, hanno intuito la scena e mi si avvicinano. «Ho perso il lavoro e la casa da poco», dice Hassam, il più giovane dei tre, «altrimenti ti avrei ospitato io». È un mese che dorme in viale Ortles. «La maggior parte degli ospiti sono extracomunitari come me», aggiunge, «dentro è pulito e tranquillo, ma spero di andar via presto». Poi Hassam mi dà un consiglio: «Sei italiano, se prima di venire qui non hai fatto niente di male puoi chiamare il 113, loro una sistemazione te la trovano». Mi fa capire che lui della giustizia italiana si fida ciecamente. Io un po? meno, e, salutandolo, decido di non seguire il suo consiglio.

Colpa della burocrazia

Sono le 22, ancora un?ora e il dormitorio chiude i battenti. La pioggia continua incessante, rimango sulle scale esterne, riparato. Il viavai di persone è continuo. Sono tutte vestite in modo dignitoso, altro che stracci. E mi stupisce il numero di donne, di poco inferiore alla presenza maschile. Dopo qualche minuto esce il funzionario di prima. «Che ci fai ancora qui?», chiede. Butta male, penso. Invece, colpo di scena: «Scusa per come ti ho trattato prima», dice, «è che qui ogni sera ci sono più di 500 persone da gestire, e perdo facilmente la pazienza».

Scruta il mio silenzio, poi riparte: «Certo che sei un po? svogliato, ci sono tanti posti dove cercare», dice sorridendo, «vieni dentro, forza». Dopo due lunghi e incolori corridoi, arriviamo in una stanzetta. Qui un medico parla a voce alta. Ha di fronte a sé una signora sudamericana. Il funzionario prende il medico in disparte e gli spiega la mia situazione. «è italiano, non ha un tetto per questa notte, glielo troviamo un posto?».

Spariscono nella stanzetta, dove mi fanno entrare qualche minuto dopo. Il dottore mi spiega che può farmi le visite subito, ma che solo quelle non bastano per entrare stanotte. Per il buono serve l?autorizzazione dei servizi sociali, e prima di domani niente. Il funzionario, che oramai mi aveva preso a cuore, allarga le braccia sconsolato. «Mi dispiace, ma per lasciarti dentro la struttura sono obbligato a fare rapporto», ammette, «ci andrebbe di mezzo il mio lavoro».

Una panchina alla Centrale?

Gli chiedo dove posso andare, mi dice che a quest?ora, forse, una panchina della Centrale la trovo ancora. «Torna domattina, fai la trafila, e un posto te lo troviamo presto». Ma ora ho una notte davanti. Scendo per l?ultima volta le scale di viale Ortles e m?imbatto in un signore dalla lunga barba bianca, che va avanti e indietro gesticolando nervosamente sotto la pioggia. «Questa dannata burocrazia, necessaria ma esagerata», mi dice augurandomi buona fortuna, lui che di notti all?addiaccio ne ha passate decine, prima di trovare un posto nel dormitorio.

Il suo calore umano mi convince ad affrontare la notte milanese. Vado verso la Centrale, ma sulla strada trovo un altro clochard italiano che morde un panino riparandosi sotto un tetto. Mi accorgo che non ho mangiato, ma per fortuna non ho fame. «Non andare alla stazione», mi dice l?uomo, «fino alle 3 puoi dormicchiare sugli autobus notturni, poi giri per le vie di Milano, è bella nel silenzio della notte, sai?». La pioggia sembra diminuire. Ho deciso: questa volta il consiglio lo seguo.


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