In concorso al festival del Cinema
di Venezia il film ispirato al romanzo di Stefano Massaron, che racconta la perdita dell’innocenza. Un noir sullo sfondo della periferia milanese anni 70, che scava in un dramma ancora attualeÈsolo ferro, andiamo via. L’incanto dell’infanzia sparisce così, quando travi e macerie e attrezzi abbandonati si spogliano del fascino del meraviglioso e si svelano allo sguardo per quel che sono: ferro. Quando lo sguardo si fa sprezzante e disincantato. A raccontare la perdita dell’innocenza e il passaggio all’età adulta di Sandro e Cinzia è Stefano Massaron, nel suo romanzo noir Ruggine. Da cui ora Daniele Gaglianone ha tratto un film omonimo, presentato alla 68esima Mostra del Cinema di Venezia il 1° settembre. Protagonisti molti big del cinema italiano: Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea e Valeria Solarino.
Da Ruggine si comprende la sua passione per il noir alla Stephen King. Ma perché ha inserito la pedofilia?
È stata una sovrapposizione di idee. In realtà volevo parlare di bambini, raccontare l’ultima estate della mia infanzia, nel 1977, in modo nostalgico. Ma non amo scrivere in modo autobiografico, quindi avevo bisogno di uno spunto drammatico che capitasse a quei ragazzini. Nello stesso tempo avevo in mente di calarmi nella mentalità e nell’esistenza di un pedofilo, e questa è stata la prova più dolorosa. Improvvisamente ho intuito che i due temi si potevano collegare.
Nel suo romanzo i bambini non vengono mai creduti…
Esatto. In quell’epoca c’era uno scollamento molto maggiore tra il mondo dei bambini e quello degli adulti. Gli adulti non credevano mai ai bambini, a prescindere. Adesso la situazione è diversa, i bambini dialogano di più con i genitori, ma su certi argomenti le cose non sono cambiate. Prevale il timore che si crei un mostro dal nulla.
Racconta la vita di un gruppo di bambini in una periferia milanese, i loro giochi in un’epoca in cui non c’erano i videogame e un deposito di ferraglia diventa un luogo meraviglioso.
Sì, i bambini hanno sempre questo dono meraviglioso, di trasformare le cose attraverso la fantasia. Il deposito di rottami è per loro il castello dei sogni. Travi che si assestano in perenne movimento, ogni giorno si scoprono passaggi nuovi. I bambini non riescono a vedere lo squallore delle macerie industriali… è come se depositassero sulle cose una patina di immaginazione.
Trovo che ci sia un contrasto molto netto tra quella Milano, nella quale comunque scattavano la solidarietà e l’amicizia, e la Milano di adesso, presa dall’ossessione del business.
Io non trovo che col passare dei decenni ci sia una grande cambiamento. La differenza è che ai “terroni” di allora si sono aggiunti gli extracomunitari. E oggi nelle famiglie più popolari i genitori non hanno tempo per instaurare un dialogo con i loro figli, non c’è il tempo per capirsi. Prima si lavorava nelle fabbriche, ora ci si disperde in lavori precari e sottopagati, a 3 euro l’ora. Il tempo ce l’hanno solo i genitori di un’altra classe sociale.
Quindi fra qualche anno, un racconto come Ruggine sarebbe scritto da un giovane 2G che ha vissuto l’infanzia nelle nostre periferie?
Sì, infatti se avessi dieci anni di meno i dialoghi, che nel mio romanzo avvengono tra ragazzini che parlano in siciliano o in pugliese, li avrei scritti esattamente uguali, ma fra ragazzi che parlano metà in italiano e metà in arabo, o in cinese.
Paradossalmente dunque questo sarebbe un romanzo da far leggere a scuola, ai ragazzi delle seconde generazioni, perché potrebbero capire come la loro esistenza è identica a quella vissuta dai figli degli immigrati dal Sud.
Sarebbe bello. Anche allora non ci si capiva, c’era bisogno di un interprete per tradurre ciò che i pugliesi dicevano ai siciliani: sarei contento se un domani un romanzo come questo fosse definitivamente superato, cioè che qualcuno dicesse che certe cose, nella società, non esistono più. È triste che sia ancora attuale.
È stato capace di immedesimarsi nella psicologia malata di un pedofilo, che vive l’ossessione del sesso deviato, fino al drammatico finale.
Il pedofilo è quasi sempre una persona che gode di una certa autorità, per cui diventa insospettabile. Per la prima volta ho contravvenuto alla regola di scrivere in ordine cronologico. Ho deciso di scrivere le pagine nelle quali il pedofilo narra in prima persona ciò che gli accade tutte di seguito, alla fine del mio lavoro, perché vivevo una situazione di estremo disagio, avevo gli incubi di notte. Ma dovevo farlo, perché non volevo descrivere questa figura solo da un punto di vista esterno. E poi non ho voluto fornire al mio personaggio nessuna giustificazione: non si parla mai di chi era prima, della sua infanzia… Non volevo fornire al lettore nessun meccanismo giustificatorio.
C’è sempre molta differenza tra un libro e un film, anche ben realizzato. Ma è importante che il cinema intercetti la buona narrativa italiana, come in questo caso…
Sono tutti molto stupiti del fatto che io sono contento di come è stato realizzato il film, compresi i cambiamenti rispetto al mio testo. Il regista è riuscito a trasmettere tutto l’orrore di questa persona, senza mai essere esplicito. Non era facile. E poi c’è una cosa che mi è piaciuta: Gaglianone mi ha chiamato chiedendomi il permesso di usare, alla fine del film, una frase tratta dal romanzo. Non avrei mai immaginato che, di tutto il libro, avrebbe colto proprio quella che anche per me è la “frase chiave”.
E qual è?
Alla fine della storia, quando il capo della banda di bambini si volta verso il deposito di rottami, che è stato fino ad allora il luogo immaginario dei loro sogni, dice: «Andiamo via, perché è solo ferro». Di quella frase nessun critico, nessun recensore si era mai accorto. E invece quella frase segna proprio il passaggio tra la fine dell’infanzia e l’inizio drammatico dell’adolescenza.
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