Non profit

La mia battaglia contro la mafia a colpi di tarallucci e vino

Alessandro Leo

di Redazione

Ha vinto il Panda d’Oro del WWF per un progetto di olivicoltura biologica. Ma il premio più bello Leo lo riceve ogni volta che nella sua cooperativa Terre di Puglia arriva
un nuovo lavoratore ex detenuto. Che dimostra come,
anche in condizioni sociali difficili, una vita diversa è possibileLo so, tutti sorridono quando parlo come un innamorato del carciofo violetto brindisino. Ma per noi è stata una bella conquista riuscire a produrre la prima versione biologica utilizzando le piantine del Consorzio di difesa agrario». Sembra di sentir parlare un agronomo appassionato. Invece Alessandro Leo è un filosofo contadino, presidente della cooperativa Terre di Puglia – Libera Terra sorta sui terreni in provincia di Brindisi confiscati alla Sacra Corona Unita.
«Oggi i clan non sparano più, eppure continuano a gestire i traffici illeciti», si legge sul sito della cooperativa. «Ecco perché proprio da questa terra deve partire il messaggio che alla mafia, oltre ai beni, si possono “confiscare” anche le persone», sostiene con forza Leo. A lui, appassionato di Sartre e di Gramsci, di Platone e di Kant, è venuto in mente di dare lavoro a un carcerato che ha cominciato un percorso di cambiamento. «Si chiama Massimiliano, ma non è l’unico. Sui campi hanno lavorato altri cinque detenuti – non mafiosi – e diversi immigrati. Anche il nome che abbiamo dato a uno dei nostri vini, Hiso Telaray (è il nome di un giovanissimo immigrato albanese ucciso nel 1991 per essersi ribellato ai caporali, ndr) ha un significato preciso, è una testimonianza di giustizia. Noi non possiamo cambiare il mondo da soli, ma possiamo dare segnali facendo lavorare persone che, come Massimiliano, vogliono dimostrare che è possibile cominciare un percorso per vivere diversamente», afferma Leo. «Chiaro che la scommessa è delicata», aggiunge, «perché c’è grande attenzione e ci sono anche forti dubbi. Tutti sono sempre pronti a dire che il progetto non funziona, e invece…».
Avviata tre anni fa, la cooperativa è diventata in poco tempo una vera e propria azienda agricola con un fatturato («più o meno in pareggio», dice il presidente) di circa 800mila euro. Conta 12 soci, ma a lavorare nei campi sono in tutto una ventina di persone che superano i 50 con i lavoratori stagionali, «tutti assunti e in regola» sottolinea il presidente. E ricorda che la cooperativa si occupa in più anche di fare cultura sul territorio, organizzando diverse iniziative, portando questa esperienza nelle scuole e gestendo campi estivi di lavoro che quest’anno hanno coinvolto circa 500 ragazzi da tutta Italia.
Gli ettari coltivati sono una sessantina: 35 a vigneto, 120 a seminativo, 7 a uliveto, oltre a quelli dell’Istituto tecnico agrario di Ostuni con cui è stata avviata una collaborazione. La produzione principale è vinicola: 120mila bottiglie tra Negramaro e Primitivo di alta qualità. Poi c’è l’olio extra vergine d’oliva: 5mila bottiglie di “Colline di Nardò” e altrettante di “Ogliarola salentina”, prodotti da ulivi millenari. Con il grano di Mesagne si producono taralline e friselline. E poi ci sono le 170mila bottiglie di passata di pomodoro Fiaschetto («quella che i nostri nonni facevano in casa artigianalmente»), 10mila barattoli di pomodorini seccati e carciofini sottolio. «Sono le produzioni che in qualche modo ci connotano. Quest’anno abbiamo vinto il Panda d’Oro del WWF per la tutela del paesaggio agrario e della biodiversità per aver costituito una comunità di olivicoltori biologici che si occupano della cura degli olivi, e in qualche modo quindi anche della cura del paesaggio», ricorda Alessandro Leo.
Non tutto però è stato raggiunto senza difficoltà. Anche in Puglia non sono mancate intimidazioni e vandalismi: «Qui la partita non è mai del tutto chiusa. Cercano di limitarci nelle iniziative, nelle attività, ma non credo ci sia nessuna esperienza di Libera Terra che non abbia subìto incendi dolosi o minacce personali agli operai. Secondo loro era un buon modo per isolarci. In realtà poi abbiamo visto che la parte più attenta dei cittadini è stata dalla nostra parte, ha reagito. Questo è importante e positivo. E poi la forza del nostro progetto sta nel fatto che non è isolato, ma inserito in una rete con tante altre realtà del Mezzogiorno grazie all’apporto di Libera. Tutto questo ci dà respiro, crea ponti verso altri luoghi d’Italia e ci permette di dimostrare che non siamo affatto isolati. Per me si tratta di un’esperienza molto piena, che mi occupa in tutto e per tutto. Ma mi sento anche fortunato ad averla incontrata, perché sento che sto combinando qualcosa di buono per tutti qui, nella mia terra».
Il momento più bello di questa avventura? «Quando abbiamo imbottigliato il nostro primo vino Negramaro. I vigneti, dopo un incendio doloso, erano dati per spacciati, non trovavamo nessuno disposto a lavorare per noi… e invece siamo stati premiati. Ne abbiamo due selezioni, rosso e rosato, e per gioco l’abbiamo chiamato “Filari di Sant’Antonio”. Perché l’incendio avvenne la notte di Sant’Antonio, santo del fuoco e dei miracoli – qualcuno parlò di “autocombustione” – e perché il precedente proprietario, che era una cassiere della Sacra Corona locale, si chiamava proprio Antonio».

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