Presi come siamo a modellare le varie parti del corpo (normativo), con il terzo settore rischiamo di fare lo stesso errore di colossi e giganti vari: crollati per la fragilità delle loro fondamenta. La nuova legislazione ribadisce infatti importanti elementi costitutivi del comparto e per rendersene conto basta leggere il primo articolo del disegno di legge delega appena approvato.
[Le organizzazione di terzo settore] realizzano finalità solidaristiche e d’interesse generale, anche attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale, in attuazione del principio di sussidiarietà, al fine di sostenere la libera iniziativa dei cittadini associati per perseguire il bene comune ed elevare i livelli di cittadinanza attiva, coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona.
Non è solo una dichiarazione di missione. L’articolo, anzi il comma, può essere letto anche come una rassegna delle qualifiche che contraddistinguono le attività svolte dal terzo settore. Qualifiche che si possono riassumere in una parola: meritorietà.
La meritorietà è un attributo sfuggente, come ci ricorda questa bella definizione. Il fatto che un certo bene o servizio sia reso disponibile a determinate persone a prescindere dal fatto che queste siano in possesso delle risorse necessarie per acquisirlo non deriva da una specie di legge di natura, ma è il frutto di un’iniziativa – squisitamente politica – di creazione di consenso per effetto della quale la “pubblica opinione” e le strutture politico / amministrative legittimano la meritorietà del bene. Che in caso contrario si degrada al rango di semplice bene privato.
Se esistesse una specie di borsino della meritorietà molti dei titoli quotati presenterebbero oggi il segno negativo. Accoglienza dei migranti, inserimento lavorativo per i carcerati, assistenza ai minori.. Tutti sotto attacco. In molti casi la questione è stata “risolta” guardando agli scandali che hanno coinvolto i soggetti gestori (le mele marce), ma l’impressione è che la questione sia più profonda e vada oltre la reputazione delle organizzazioni, chiamando in causa, appunto, la natura delle loro attività.
Se a questo si aggiunge un sentiment ancora basso rispetto a schemi di gestione multipolare della cosa pubblica (nella forma di partnership tra PA e terzo settore) gli scricchiolii si fanno ancora più intensi.
Proprio ora, quando da più parti si reclama un welfare più “generativo” e d'”investimento” ci si ritrova ad agire con bassi livelli di legittimazione e di meritorietà. Non un grande viatico per il coinvolgimento dei vari attori chiamati ad assumere un ruolo più attivo, ad iniziare dai beneficiari delle iniziative, ma anche soggetti economici, nuove forme di aggregazione della domanda, ecc.
Forse siamo alla fine di un “ciclo societario” iniziato qualche decennio addietro grazie a movimenti sociali che se su altri fronti hanno fallito, nel campo del welfare sono riusciti a rimodulare profondamente il consenso sociale, ad esempio nel campo della psichiatria, delle dipendenze, della disabilità.
Bisogna quindi riplasmare la meritorietà riportando la produzione a più stretto contatto con i processi di advocacy e, viceversa, orientando la rappresentanza alla co-produzione.
Non è semplicissimo. Da una parte si tratta di lavorare su substrati culturali (educazione civica mixata a quella imprenditoriale) e quindi serve, inevitabilmente, tempo. Poi occorre investire sulla generazione e comunicazione di valori d’impatto, sapendo che non si può contare solo sui tradizionali intermediari della fiducia. Oggi la meritorietà passa in parte crescente attraverso giudizi espressi da una platea di interlocutori se non vasta certamente differenziata (dai crowdfunder agli utenti). Un cambio di prospettiva stile tripadvisor del welfare dagli effetti ambivalenti, ma la sfida è tracciata.
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