Salute Mentale
La meravigliosa leggerezza dello star insieme, a teatro
È stato presentato in anteprima mondiale a Lecco il 6 ottobre il documentario "Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza" di Erika Rossi, che racconta la storia dell'Accademia della follia, compagnia teatrale nata in seno alla rivoluzione basagliana
Tecnica più follia uguale arte. Questa è una delle frasi che costituiscono le fondamenta dell’Accademia della follia (di cui abbiamo già scritto qui). Una compagnia teatrale di matti per professione e attori per vocazione – per citare un altro dei loro motti – nata nell’ex manicomio di San Giovanni, a Trieste, all’epoca della rivoluzione basagliana e viva e vitale ancora oggi, nonostante la morte del suo fondatore, il carismatico Claudio Misculin. La storia di questo straordinario gruppo è diventata un documentario, Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza, di Erika Rossi, proiettato in anteprima mondiale a Lecco il 6 ottobre.
Come mai ha deciso di realizzare un film sull’Accademia della follia?
Dai miei primi approcci al mondo del cinema-documentario mi sono occupata di tutto ciò che era inerente alla rivoluzione basagliana; ho frequentato molto l’ex manicomio di Trieste, conoscendo sempre meglio le realtà che gravitavano attorno a questo spazio, dove tante associazioni e gruppi di persone hanno creato progetti di inclusione. Fin dai primi anni 2000 ho cominciato a raccontare questa trasformazione che continuava. Nel mio percorso professionale ho incontrato Claudio Misculin e ho lavorato più volte con lui e con l’accademia, principalmente perché li coinvolgevo nei documentari che realizzavo. Per me loro sono una delle messe in pratica più efficaci della visione basagliana.
Come mai?
Claudio, attraverso il suo teatro di ricerca non solo comunica storie di chi aveva vissuto nel manicomio chiuso, ma soprattutto cerca di guardare alla persona non come a un malato. Perché bisogna ricordarlo: l’Accademia della follia accoglie chiunque si affacci alla sua porta per fare teatro, non teatroterapia. Nel corso di 40 anni, centinaia – forse migliaia – di persone hanno vissuto un’esperienza sul palco non in quanto sofferenti o malate, ma in quanto attori.
Per questo l’ha voluta raccontare, quindi.
Esatto. Quando purtroppo poi nel 2019 Claudio è improvvisamente morto, ho capito che era arrivato il momento di farlo. Il caso, come spesso accade nella vita, mi ha portato a collaborare con l’Accademia per fare le riprese del loro spettacolo in omaggio al suo fondatore. Da lì è nata l’esigenza molto forte di raccontare questa esperienza.
Ci descrive com’era Claudio Misculin?
Claudio era una forza della natura in tutti i sensi, nel bene e nel male. Aveva una fortissima personalità, era un capobranco e quindi era abituato a esercitare la sua autorità; dall’altro lato, però era una delle persone più generose e accoglienti del mondo. Era una persona sui generis, sopra le righe.
Nel documentario viene mostrato anche il rapporto molto forte di Claudio Misculin con il “successore” di Basaglia, Franco Rotelli.
Claudio aveva grande ammirazione e stima, forse anche soggezione, del suo maestro. In un passaggio del documentario lui dice che Rotelli era il suo “papà psichico”. Claudio ha sposato l’idea basagliana e Franco (Rotelli, ndr) lo ha guidato, accompagnato e sostenuto nelle sue iniziative e nei suoi progetti.
Ora che non c’è più Claudio, che ne sarà dell’Accademia della follia?
Dopo la morte di Claudio c’è stata una fortissima volontà da parte delle persone che con lui avevano fondato il progetto, o che lo avevano incontrato e avevano condiviso con lui pezzi del percorso, di continuare. Tutte queste persone – che sono tutte donne – stanno portando avanti il progetto da ormai quasi cinque anni, con grande forza ma anche con la voglia di innovare e di aprirsi. Continuano a costruire gli spettacoli Angela Pianca come drammaturga, Cinzia Quintiliani – quella che è stata la moglie di Claudio per 18 anni – come organizzatrice e Sarah Taylor come coreografa. Si sono aggiunte due donne fondamentali, Antonella Carlucci e Alice Gherzil. Coordinano e tengono insieme il gruppo, perché la cosa più difficile è la quotidianità. Gli attori si allenano ogni giorno, come qualsiasi compagnia teatrale, però, siccome buona parte dei componenti ha una vita problematica non è la cosa più scontata. Ma l’Accademia è anche questo, costruire relazione e famiglia.
Chi recita viene pagato?
Sì, ci sono borse lavoro per gli attori.
Com’è cambiata negli anni l’Accademia, secondo te?
I primi dieci anni sono serviti a capire come fare teatro con i matti senza fare “teatroterapia”, quindi mettendo in atto tutta una serie di strategie, poi diventate un metodo. Lavorare sul corpo, sui testi, sulle storie, per esempio. Poi penso ci siano state diverse evoluzioni durante gli anni 90 e poi nei primi 2000. La compagnia ha fatto spettacoli di rilievo, con Stravaganza (spettacolo scritto da Dacia Maraini per l’Accademia, ndr) sono stati due volte in Brasile, hanno girato in Francia, Germania, Spagna, si sono aperti verso il mondo dei palchi internazionali. Chi era presente in quel momento ha vissuto esperienze anche intense. Però penso che l’anima dell’Accademia non sia cambiata moltissimo; io ho iniziato a frequentarla verso il 2004/2005 e quello che percepivo con più forza era questa meravigliosa leggerezza dello stare insieme. Saper ridere insieme forse proprio perché si mettono in scena situazioni così pesanti, attraverso un lavoro costante.
Cosa vorrebbe che suscitasse questo documentario in chi lo vede?
Sinceramente credo che la cosa più importante sia far conoscere l’Accademia della follia, far capire il peso di questo progetto e la storia di 40 anni di questo gruppo. Il primo pensiero, dunque, è una restituzione. Poi vorrei passare un messaggio politico: ricordare quanto la storia della rivoluzione basagliana abbia creato cambiamento. Si guardava il mondo in un altro modo. E Claudio Misculin, quando parla, è chiaro che sta facendo discorsi politici.
Foto nell’articolo fornite da Erika Rossi
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